domenica 18 settembre 2016

30. Kawabata Yasunari - Bellezza e tristezza

Più riguardo a Bellezza e tristezzaNon leggo molti premi Nobel. Non è una scelta, la mia; più semplicemente credo che molti dei vincitori non siano stati poi tanto pubblicizzati, non siano famosi quanto autori meno titolati ma scrittori di bestseller a iosa e che quindi sia più difficile, senza un'intenzionalità, incappare in una delle loro opere. Un vero peccato, visto che di recente, complice la mia ricerca di autori internazionali, ho spulciato l'elenco completo dal 1901 e ho scovato un paio di nomi che mi sembrano vere e proprie chicche. Meno male che ci pensa il gruppo di lettura a impormi letture un po' più elevate e di nicchia, almeno nel panorama letterario italiano. Questa volta è toccato a Kawabata.

Prima di tutto vorrei rassicurare chi si immagina un gruppo di lettura che non va in ferie manco d'estate. Il coacervo di menti anarchiche con cui mi accompagno fanno vacanza eccome; soltanto ci piace riempire il vuoto lasciato nei mesi estivi (in questo caso ben 2 mesi e mezzo!) con qualche compito, e approfittando del periodo più rilassato e di certo più lungo scegliamo ogni anno due romanzi, uno breve e uno un po' più mattone, perché ci tengano compagnia.
"Bellezza e tristezza" di Kawabata Yasunari è davvero corto, soltanto 171 pagine nella mia edizione economica Einaudi, ma è un libricino delizioso.

Pubblicato nel 1965, tre anni prima che l'autore si aggiudicasse il Nobel, primo giapponese a riuscire nell'impresa, questo romanzo ha un ritmo, una delicatezza e un'atmosfera tutta nipponica. Impossibile non innamorarsi dei luoghi descritti dall'autore, così come della storia e tradizione che trasudano dalle pagine. Il Giappone degli anni Sessanta è ancora in bilico tra passato e modernità, tra donne in kimono e apertura all'Occidente.
Dissento con tutta me stessa dall'affermazione dello sciagurato autore della quarta di copertina nella mia edizione, che definisce l'atmosfera della vicenda "grigia, crepuscolare e quasi rassegnata". Non lo è per niente, almeno a me ha dato un'impressione totalmente opposta. Anzi, grazie alle pennellate descrittive di Kawabata, puntuali ed evocative pur non essendo affatto pesanti nell'economia della narrazione, non ho potuto trattenermi dal ricercare su Google fotografie dei posti che i protagonisti visitavano. Mi hanno incantata. Foreste di bambù, fiumi contornati da aceri dalle foglie infuocate, colline verdi su cui sorgono templi antichi che conservano una tradizione millenaria e giardini di rocce e di muschio. I miei occhi si sono pasciuti a lungo delle bellezze del Sol Levante; dopo tanto tempo ho riconsiderato la possibilità di farci una vacanza, costi permettendo.

Non sorprende che si respiri un'aria tanto tradizionale quando la maggior parte delle vicende si svolgono a Kyoto, città che ha mantenuto il tocco e le atmosfere del passato, come congelata nel tempo. I protagonisti del romanzo sono pochi, uniti da profondi legami affettivi: Toshio Ōki, scrittore cinquantenne di successo diviso tra la propria routine e i ricordi della giovinezza, Otoko Ueno, pittrice tradizionale rimasta nubile per scelta a causa di un amore mai scordato, Keiko Sakami, giovane allieva di Otoko dalla personalità intensa e disturbata, a tratti ossessiva, Fumiko, moglie di Ōki, donna rancorosa e insicura ma caparbia, e infine Taichiro, figlio di Ōki e Fumiko, giovane professore universitario dal carattere remissivo soffocato dalla fama di suo padre ma innamorato dei propri studi classici. Le loro vite si incroceranno, in parte per la seconda volta, dando forma a un domino di eventi che li porterà a nuove prese di coscienza e alla fine della vita come l'avevano conosciuta fino a quel momento.

Credo sia naturale per un occidentale provare dei momenti di puro estraniamento nel leggere i dialoghi e i pensieri dei protagonisti. La mentalità giapponese ci è aliena da molti punti di vista e le dinamiche nei rapporti sociali, soprattutto tra uomo e donna, seguono convenzioni che a noi paiono folli se non ridicole. Eppure chi ha un po' di dimestichezza col Giappone ritroverà senz'altro il ritmo dei dialoghi brevi, essenziali e circolari e la lentezza meditativa caratteristica di questo Paese.
L'autore ha scelto peraltro quasi tutti protagonisti dal forte temperamento artistico, che più sono inclini a seguire le passioni e i movimenti dell'animo umano ma che soprattutto sanno leggere nella natura e nell'arte che li circonda messaggi profondi.

Una cosa quasi buffa che mi ha colpito è la somiglianza tra il comportamento delle donne giapponesi ritratte nel romanzo e lo stereotipo delle donne italiane del Sud, specialmente in riferimento allo stesso periodo storico: donne silenziose, legate alla casa e in qualche modo votate alla famiglia come unico mezzo di affermazione di sé, sottomesse per convenzione al marito ma, allo stesso tempo, inclini a sceneggiate isteriche e scoppi di passionalità quasi incontrollata.

Ci sono molti temi classici della letteratura giapponese, ma uno che mi ha colpito è la forte presenza della componente omosessuale nella storia. Non è la prima volta che mi imbatto in questa tematica in romanzi di autori giapponesi, anzi posso forse dire che è citata in quasi tutte le opere su cui ho messo le mani. Il che mi ha fatto pensare... Soprattutto perché avevo l'impressione che i giapponesi non vedessero proprio la cosa di buon occhio, ma potrei aver travisato drammaticamente.

Detto questo, non posso che consigliare la lettura di questo romanzo. Kawabata ha una forza narrativa incredibile e mi ha davvero irretita. Credo che comprerò anche qualche altra sua opera... E' scorrevole e godibile, ben strutturato e, nonostante i frequenti riferimenti alla cultura giapponese, tutto è spiegato in modo semplice e diretto, a portata di occidentale e senza nemmeno una noticina!
La lettura perfetta per chi vuole immergersi nel Giappone.

P.S.: In seguito alla prima riunione del gruppo di lettura, posso dire che ahimè, il libro agli altri non è piaciuto affatto. Non so, resto un po' dell'idea, ascoltati i commenti di tutti, che sia proprio la mentalità e la cultura giapponese a non essere stata capita e apprezzata. Mi spiace perché per me è stata invece una scoperta davvero affascinante. Che dire, de gustibus...

giovedì 8 settembre 2016

29. Philippa Pearce - Il giardino di mezzanotte

Più riguardo a Il giardino di mezzanotteI libri per bambini mi piacciono proprio, non c'è niente da fare. E' assurdo, perché quand'ero bambina, invece, non ne ho letti poi molti, lanciata com'ero verso la letteratura per i "più grandi". Ho iniziato a leggere libri per ragazzi a 8 anni, libri per adulti verso gli 11, e quelli per bambini li ho un po' ignorati.
Ed è un vero peccato.
Non che sia questa grande tragedia, dal momento che invece, ora, mi piace buttarmi su una di queste storie, di tanto in tanto. Spesso mi danno anche più soddisfazione di tante altre letture più seriose e pesanti... Chiaro che, non avendo più 8 anni, non potrò mai più vivere le emozioni e le sensazioni che quel romanzo mi avrebbe dato da bambina, ma le storie belle davvero hanno talmente tanti livelli di lettura, talmente tanti spunti che, a parer mio, sono godibili a qualunque età.

Tutto ciò per dire che un paio di settimane fa sono andata nella zona per bambini della libreria dove mi servo di solito, ho esplorato la sezione degli usati al 50% e ho scovato questo libro, "Il giardino di mezzanotte" di Philippa Pearce. Conoscevo già questa autrice ma solo per sentito dire, o meglio per aver letto il suo nome sulla copertina di un altro romanzo per ragazzi. La collana Gl'Istrici Salani mi piace, il titolo era accattivante e quindi è venuto a casa con me.
Avevo sbirciato la trama sulla quarta di copertina e mi era parsa semplice, nulla di nuovo e rivoluzionario, ma potenzialmente interessante. Temevo di prevederne già il finale, il colpo di scena che avrebbe rivelato il mistero del suddetto giardino, ma ho voluto mettere alla prova l'autrice. Esito del test: negativo.

La trama del romanzo è piuttosto classica, da un certo punto di vista. Un bambino di nome Tom è costretto a lasciare la propria casa per trasferirsi da alcuni parenti, che si offrono di ospitarlo per qualche tempo. Qui, alla ricerca di un intrattenimento che gli faccia dimenticare la nostalgia di casa, scopre un misterioso fenomeno: ogni notte a mezzanotte, quando la pendola dell'ingresso batte tredici rintocchi anziché dodici, sul retro della casa appare un meraviglioso ed enorme giardino. Tom inizia a recarvisi ogni notte per giocare ed esplorarlo, ed è così che conosce Hatty, una bambina poco più piccola di lui che pare l'unica in grado di vederlo.
La storia procede quindi con la descrizione delle loro avventure, mentre Tom cerca, insieme al lettore, di dare una risposta a due domande: qual è il legame tra la vecchia pendola e l'apparizione del giardino e chi è davvero Hatty? Si tratta di una magia? Il giardino esiste o è esistito davvero e, in quel caso, Hatty è forse un fantasma?

Come dicevo nulla di spettacolare, ma ci si possono trarre buone cose. Invece secondo me l'autrice ha buttato via un buono spunto in un racconto farraginoso e inconcludente. Mette forse troppa carne al fuoco e al momento di tirare le somme taglia un po' troppo, cercando una via d'uscita semplice ma, a mio avviso, poco incisiva.
C'erano secondo me diverse opzioni, diverse strade che poteva tentare, dalla più scontata alle più drammatiche. Invece una soluzione vera non c'è, una spiegazione non la otteniamo; anzi tutti gli indizi che mette in campo non fanno null'altro che complicare ancora di più le cose e rendere contorto lo svolgimento della storia.

Inoltre il libro avrebbe forse avuto bisogno di un minimo di editing legato al periodo storico in cui è stato scritto. Tom è un bambino della prima metà del XX secolo; a occhio lo posizionerei alla fine degli anni '40, massimo nel '52. Essendo stato pubblicato nel '58, il romanzo era abbastanza attuale all'epoca e l'idea di una interferenza temporale, se così possiamo chiamarla, interessante. Riletto al giorno d'oggi, però, con gli occhi di un bambino moderno, Tom è percepito come un alieno: gli usi e lo stile di vita descritto sono inconcepibili per un coetaneo del XXI secolo. Non potendo adattare la storia modernizzandola, forse aiuterebbe dare un riferimento temporale iniziale che renda chiaro al lettore l'ambientazione geografica e temporale. Soprattutto visto che la collocazione nel tempo è così importante per la trama!

Comunque sia sono rimasta un po' delusa da questa lettura, che nella biografia dell'autrice viene definita il suo miglior romanzo. Triste, ma non ne consiglierei la lettura. Non mi ha lasciato niente e, per quanto non possa dire che non mi sia piaciuto affatto, ci sono mille altri libri per bambini che meritano molto di più.
Forse dovrei parlare di un paio di questi, in futuro...

mercoledì 31 agosto 2016

28. Saleem Haddad - Ultimo giro al Guapa

Più riguardo a Ultimo giro al GuapaCi sono persone che rappresentano con la loro stessa esistenza la complessità e le contraddizioni del mondo globalizzato. Saleem Haddad ne è un esempio lampante.
Nato in Kuwait da padre libano-palestinese e madre iracheno-tedesca, Haddad è cresciuto tra Giordania, Cipro, Canada e Gran Bretagna. Un bel mix, non c'è che dire, il ragazzo parte incasinato. Inoltre, pur essendo ufficialmente residente a Londra, ha lavorato con Medici Senza Frontiere in molti Paesi del Medio Oriente, quali Yemen, Siria e Iraq. Posso immaginare che lì sia venuto in contatto con parecchi profughi e abbia potuto vedere coi propri occhi i risultati della guerra in Afghanistan e in Iraq così come dei moti della cosiddetta "Primavera araba", che hanno portato in alcuni casi alla guerra civile e all'ascesa di gruppi islamici combattenti.

In parte, in gran parte, il romanzo "Ultimo giro al Guapa" parla proprio di questo, della condizione del Medio Oriente nel mezzo dei venti di rivoluzione ma sul punto di cadere nel caos della guerra civile. La storia non è ambientata in nessuno stato in particolare, Haddad usa nomi fittizi, inventa un background sociopolitico e un paesaggio urbano mischiando situazioni e realtà che ha plausibilmente toccato con mano. Direi che tra le pagine del romanzo si possono facilmente riconoscere Libano, Egitto e Siria, per citarne solo tre. L'autore tocca parecchi punti dolenti, quali le dittature del mondo arabo, le rivolte popolari soffocate nel sangue e le torture inflitte dalla polizia a chi finisce nelle sue grinfie per un motivo qualsiasi; il forte conflitto tra la ricchezza di pochi occidentalizzati e l'estrema povertà e ignoranza della larga maggioranza della popolazione, conflitto a volte sottolineato persino nell'urbanistica e che, creando una voragine di insoddisfazione, ha portato negli anni alla nascita di gruppi armati di ribelli controllati da fondamentalisti islamici ma supportati da parte del popolo; l'enorme peso che la morale pubblica, legata agli insegnamenti della religione musulmana, ha sulla vita delle persone e sulle loro scelte non solo personali ma anche politiche.

Interessante è anche il punto di vista del protagonista, Rasa, che a diciotto anni lascia il proprio Paese per andare a studiare in un'università statunitense. Questa pratica è diffusissima nell'alta borghesia mediorientale, in parte per questioni di prestigio e in parte per le maggiori possibilità di specializzazione che l'Occidente offre, e ha dato luogo negli ultimi anni a una vera e propria fuga di cervelli dagli stati arabi; ciononostante non è questo il caso del protagonista. Piuttosto l'autore ci presenta il trauma degli attacchi terroristici dell'11 settembre e della conseguente guerra in Afghanistan dagli occhi di chi è originario di quei luoghi e si sente discriminato e guardato come un criminale dai propri compagni di scuola mentre televisione e giornali danno un ritratto delle proprie origini che lui non riconosce. Dev'essere stata, e dev'esserlo tuttora, una situazione davvero disturbante vivere negli Stati Uniti proveniendo da un Paese arabo all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle.
Haddad ha pescato a piene mani dalle proprie esperienze personali, creando un panorama davvero complicato da mettere a fuoco per chi non è ben aggiornato sulla situazione culturale e politica del mondo arabo, ma forse per questo più realistico e affascinante. Anche l'utilizzo di molta terminologia araba, probabilmente in alcuni casi davvero intraducibile, aiuta a calarsi nell'ambientazione. Leggendo si scopre il significato di parole quali haram o heib, rispettivamente traducibili più o meno come peccato e perversione, entrambi trasgressioni della morale religiosa e delle dinamiche sociali condivise.

Personalmente mi ha colpito molto la rappresentazione della mentalità mediorientale. Come l'autore scrive più volte nel corso del romanzo, il nucleo fondamentale della società araba è la famiglia; questo pone un carico spropositato sull'importanza del matrimonio, della procreazione e della gerarchia di potere all'interno del nucleo familiare stesso. L'obbedienza e la sottomissione, in qualche modo, ai membri più anziani, delle donne agli uomini, del personale di servizio ai padroni di casa... Tutto questo pare essere una parte fondamentale della costituzione sociale nel mondo arabo e condiziona pesantemente la vita delle persone. Subito dopo, e in forte relazione col primo punto, viene la rispettabilità, la reputazione; ciò che gli altri pensano e l'immagine che si dà di sé all'esterno conta più di ciò che succede tra le mura domestiche e sicuramente assai più di ciò che si è veramente.
La nonna di Rasa, una benestante dalla mentalità fortemente tradizionale e accentrante, ad un certo punto della vicenda redarguisce il padre del ragazzo, ricordandogli "Hai una sola vita, una sola reputazione."
Come si fa a vivere tutta la propria esistenza così, in funzione di regole di rispettabilità che investono ogni ambito della propria quotidianità, persino ciò che si mangia o il luogo in cui si vive, il mestiere che si sceglie o i vestiti che si indossano? Per carità, non posso dire che la società italiana in cui viviamo non sia a sua volta impregnata di questa mentalità, anzi; purtroppo uno dei motivi per cui l'Italia è così arretrata rispetto al resto d'Europa è proprio questo orgoglio nazionale fatto di onore, famiglia patriarcale e buon nome, cioè che cosa dirà la gente. Ci si dovrebbe chiedere perché gli italiani abbiano tanti problemi a comprendere la cultura araba e a convivere serenamente quando la mentalità italiana stessa le si avvicina tanto...
Tuttavia l'Italia negli ultimi 50 anni ha fatto parecchi passi in avanti e non è più impossibile oggi pensare di poter scegliere il proprio lavoro, il proprio abbigliamento o il proprio partner in modo totalmente indipendente dalla famiglia. Una donna può scegliere di non sposarsi, o di avere un figlio da single: verrà tacciata di essere una poco di buono, ma non sarà isolata e massacrata psicologicamente al punto da dover scegliere di togliersi la vita o scappare. La convivenza fuori dal matrimonio è stata sdoganata, sull'omosessualità stiamo ancora lavorando e ci vorrà ancora qualche anno ma abbiamo speranza. Per me è inconcepibile rinunciare alla propria libertà o andare contro il proprio partner per far contenti genitori, nonni o parenti.
Leggendo le pagine di "Ultimo giro al Guapa" la famiglia araba mi è parsa un microcosmo soffocante e angosciante, pieno di doveri e privo di diritti. E' una condanna sia per gli uomini che per le donne, sia per chi non si è ancora sposato sia per chi ha già compiuto il necessario passo. C'è sempre qualcun altro da soddisfare, qualche altro tributo da pagare alla società. Almeno per quanto riguarda le famiglie più tradizionali, come quella descritta da Haddad, si tratta di un tormento senza fine. Più leggevo più montava in me un senso di intolleranza, quasi una reazione allergica al pensiero stesso.

Come dicevo all'inizio, l'ambientazione e i movimenti sociopolitici degli ultimi anni sono una parte importante della narrazione, ma non il fulcro. Il romanzo è, in fin dei conti, la storia di Rasa, un ragazzo giovane di buon famiglia ma con un passato doloroso di abbandono e deprivazione emotiva, e degli avvenimenti che, nel giro di 48 ore circa, lo porteranno a cambiare vita.
Rasa non è un uomo semplice, né dal mio punto di vista facile da amare. E' pieno di contraddizioni, di paure, di insicurezze, costantemente conteso tra la tradizione, rappresentata dalla nonna Teta che molto si aspetta da lui, e il desiderio di libertà e di autodeterminazione. Rasa è, in fin dei conti, ancora alla ricerca di una propria identità, di scoprire chi è veramente. La sua infanzia e adolescenza sono state costellate da avvenimenti traumatici e segreti, silenzi pesanti, domande che non potevano essere poste; e a tutto questo si aggiunge un altro dramma personale, un fatto difficile da accettare ma al tempo stesso la fonte dei suoi pochi momenti di vera gioia: Rasa infatti è omosessuale in un Paese in cui, per quelli come lui, non c'è posto.

La storia inizia dal mattino successivo a un avvenimento drammatico: la notte precedente la nonna ha sorpreso Rasa e il suo amante, il bel Taymour, a letto insieme. Per molti capitoli la narrazione scorrerà nell'atmosfera di tensione generata da questo avvenimento: sia in casa, tra Rasa e la nonna, sia tra Rasa e Taymour, che pare esserne rimasto scioccato.
Taymour viene presentato come il perfetto giovane arabo moderno. Bello, alto, elegante, ha studiato e ha una posizione già ben avviata nel mondo del lavoro. Viene da una famiglia abbiente e influente che rispetta e da cui si lascia guidare. E' indipendente, moderno nel vestire e nelle conoscenze, ma ancorato, nel profondo, alle tradizioni del suo Paese, tra cui l'importanza del matrimonio. Una condizione, questa, che manda assai in crisi la relazione con Rasa e la possibilità di vivere in modo anche solo minimamente libero la propria omosessualità.
Eppure la relazione tra Rasa e Taymour è reale, intensa e profonda. Non è un parto creativo della mente sempre in fermento di Rasa, non è finalizzata al solo sesso. Entrambi rischiano molto e hanno molto da perdere. Sembra però che nessuno dei due sia davvero disposto a fare il passo in più, che permetterebbe ai due di stare insieme pienamente: rinunciare alla propria cultura e abbandonare il Paese.
Nella mia immaginazione ho sempre considerato il medio oriente una regione in cui l'omosessualità è nascosta, negata, combattuta. Dal romanzo di Haddad pare che invece ci sia un notevole movimento underground. Nel corso del romanzo conosciamo altri giovani gay e lesbiche, scopriamo che il Guapa, da cui il titolo del libro, è un locale gestito da una lesbica ormai matura, che nella parte privata tiene spettacoli in drag. Veniamo a sapere che ci sono cinema in cui gli omosessuali possono incontrarsi, anche se spesso subiscono le retate della polizia. L'autore voleva parlare della condizione degli omosessuali nel mondo arabo perché lui per prima è gay e ha vissuto la difficile situazione di dover conciliare la sua vera natura con le proprie origini. Il conflitto tra pubblico e privato al momento non è sanato. Tanto è vero che "Ultimo giro al Guapa" è stato tradotto in molte lingue e pubblicato in tutto il mondo ma non in Kuwait, il Paese natale dell'autore.

Un ultimo focus che mi ha colpito è stato quello sull'essere arabo. Il tema dell'identità è centrale per tutto il corso della narrazione e l'identità personale è formata da tanti aspetti, quali quello sessuale, di cui ho appena discorso, ma anche quello culturale. Rasa ha grossi problemi col proprio essere arabo. Gli piace essere arabo, secondo me, ma non riesce a far pace con la libertà di diritti che vorrebbe, con l'idea di giusto e sbagliato che accompagna la sua cultura d'origine.
Il significato del proprio essere arabo verrà analizzato dal protagonista durante la sua permanenza negli Stati Uniti. Lì Haddad ci presenta un fenomeno che oggi è sotto gli occhi di tutti, con i foreign fighters: la percezione di sé dei giovani di cultura araba nati in Occidente. Nella fattispecie, Rasa incontra un giovane americano i cui genitori sono scappati dal medio oriente, un ragazzo all'apparenza alla moda e pienamente occidentalizzato, ma che di colpo comincia a cambiare e finisce per diventare un ortodosso tendente al fondamentalismo islamico.  Proprio questo ragazzo accuserà Rasa di non essere "davvero arabo". Chiaramente ci si trova di fronte a un paradosso: da una parte un ragazzo nato in uno stato arabo che fatica ad ambientarsi in America, dall'altra un giovane americano che nei Paesi arabi non c'è nemmeno mai stato, ma che pretende di insegnare al primo cosa significhi davvero essere arabi.
Sinceramente non mi sono fatta un'idea chiara di cosa faccia scattare questo tipo di reazione folle in alcuni giovani, e ritengo che non ce l'abbia nemmeno l'autore, però è un punto su cui tutti, un pochino, dovremmo porci delle domande. Cosa ci rende davvero appartenenti alla nostra cultura di origine? Cosa ci fa sentire alieni?

Il finale del romanzo mi ha un po' deluso. L'avevo in parte previsto fin dal primo capitolo, in parte è colmo di casualità e sospesi, in parte fatico a riconoscere i protagonisti. Mi è sembrato un po' raffazzonato e allo stesso tempo tirato per i capelli. Insomma, mi ha un po' deluso sul finale, ma questo non vuol dire che il libro non mi abbia lasciato molti spunti forti di riflessione.

Sicuramente è un romanzo consigliatissimo a chi vuole cercare di capire qualcosa di più della mentalità araba contemporanea senza leggere per forza storie vere e report storici, soprattutto per chi vuole sentire una voce affidabile sulla condizione dei giovani e degli omosessuali. Un romanzo che lascia un po' di amaro e poca speranza, devo dire la verità, ma ci mostra anche come tante chiacchiere da bar non riescano davvero a comprendere la profondità dei conflitti presenti nel mondo arabo oggi e la complessità di qualsiasi risoluzione e rivoluzione. Insomma, un libro davvero attuale.

sabato 27 agosto 2016

27. Pacem Kawonga - Un domani per i miei bambini

Più riguardo a Un domani per i miei bambiniIl Malawi è un piccolo stato dell'Africa sudorientale, attraversato dalla Rift Valley e dal lago da cui prende il nome. Con i suoi 13 milioni di abitanti è uno dei Paesi più densamente popolati dell'Africa. Ex-colonia britannica, la sua popolazione è multietnica e non ha sofferto, come molti altri stati, le conseguenze di guerre civili e di religione. La maggioranza della popolazione è cristiana, per lo più protestante, ma ci sono anche gruppi di musulmani, soprattutto al nord. Attualmente l'aspettativa di vita è attorno ai 50 anni; la principale causa di morte è l'AIDS.

Pacem Kawonga parla proprio di questo nel suo libro, racconta la sua storia di caduta e rinascita e vuole così celebrare chi l'ha aiutata in questo percorso e dare speranza ai tanti che in questo momento si trovano in difficoltà.

Pacem non ha avuto una vita di privazioni e drammatiche violenze. Non è stata rapita, non è stata venduta né stuprata, non ha dovuto fare la prostituta. Niente di tutto questo. Pacem è invece, se posso permettermi il paragone, il corrispettivo africano di quelle donne nostrane di famiglia agiata che prima fanno le ribelli e poi si mettono con uomini poveri e dannati che fanno fare loro una vita d'inferno. Pacem non è partita svantaggiata, ha fatto solo una serie di scelte molto stupide.

Gli europei hanno questo mito dell'Africa nera povera, miserabile, e facciamo proprio fatica a rapportarci con la classe media e borghese africana. Forse è impossibile da immaginare che, in questi Paesi, esista chi fa la bella vita e si arricchisce enormemente campando di corruzione (pochissimi), chi fa la fame e muore senza aiuti su una stuoia, nei villaggi (la stragrande maggioranza delle persone) e chi invece vive in città, ha studiato e si è guadagnato un posto di lavoro come impiegato, insegnante o nelle poche strutture ospedaliere e vive in modo dignitoso e tranquillo, pur senza sguazzare nell'oro. La società africana, al giorno d'oggi, non è molto dissimile da quella del Nord del mondo; l'unica differenza sono le percentuali.

Pacem viene proprio da questa fascia media, sebbene la sua famiglia avesse origini umili. Il padre lottò per poter studiare e affrancarsi dalla povertà e fece in modo di dare alla propria famiglia una casa confortevole e le migliori scuole del Paese. Non era un uomo perfetto, tutt'altro. Oltre ad essere spesso assente e freddo, emotivamente distante, aveva anche il vizio di cercarsi amanti: è proprio per causa sua che la madre di Pacem morì di AIDS, seguita nel giro di pochi mesi dal marito.
Questa è la prima problematica affrontata dall'autrice: in Africa, così come nel resto del mondo, peraltro, i maschi non ce la fanno proprio a tenerselo nelle mutande. Complice una cultura maschilista che vede nella virilità la misura del valore dell'uomo, gli uomini africani vengono quasi spinti ad avere quante più amanti possibili, l'idea della fedeltà maschile all'interno della coppia non li sfiora nemmeno, così come non sono loro che devono preoccuparsi di evitare gravidanze indesiderato o malattie veneree. L'uso del profilattico, per molti anni e ancora oggi in alcune zone, è stato pressoché nullo.

Pacem, ormai orfana e senza aver finito gli studi, si ritrova a fare una vita ben diversa da quella a cui era abituata, a dover lavorare e a dipendere dai parenti. Questa è un'altra realtà molto interessante: il concetto di famiglia in Africa, o almeno nelle zone del Malawi, è molto più ampio di quello occidentale, forse più simile a quello del sud Italia. La famiglia non è mai il nucleo padre-madre-figli, ma comprende tutti i parenti, zii, cugini, nonni, in una rete di sostegno e soccorso che fa sì che una persona in difficoltà economiche o familiari difficilmente si ritrovi a cavarsela da sé. Ci sono solo due casi in cui la famiglia, a volte, sceglie di abbandonare un parente: quando all'interno di un matrimonio la persona non rispetta gli accordi familiari (il matrimonio in Malawi è un contratto tra famiglie e ogni problematica tra coniugi viene discussa da un comitato di rappresentanza delle due parti, alla ricerca di una mediazione) o quando questi si rivela sieropositivo.
Purtroppo quest'ultima realtà è una tragedia del mondo rurale africano. Per qualche strano motivo qualsiasi altra malattia è considerata una sfortuna e la famiglia cerca di soccorrere il malato come può, tra cure e attenzioni. L'HIV, invece, è considerato una maledizione, una vergogna, e chi scopre di essere sieropositivo spesso deve nasconderlo a tutti, parenti e vicini di casa, rendendo le visite mediche e le cure, a tutti gli effetti, impossibili.

Pacem avrebbe potuto sposarsi con un uomo di buona famiglia, suo ex compagno di classe, con ottime prospettive lavorative, ma la sua vena autodistruttiva la portò ad innamorarsi, invece, di James, un uomo dalla pessima fama, che tutti le sconsigliavano di frequentare, e che in seguito al matrimonio si rivelò violento, ignorante e incapace di prendersi cura della propria famiglia. Pacem soffrì in silenzio per molti anni, senza trovare la forza di ribellarsi; si risvegliò solo quando la seconda figlia, Melanie, iniziò ancora neonata a dare segni di malessere generale. Solo l'amore per i propri figli è riuscito a tradurre in azione quella disperazione che la immobilizzava. Contro il volere del marito Pacem decise di farsi fare il test dell'HIV, scoprendo ovviamente di essere sieropositiva.

La scoperta della malattia è, da un certo punto di vista, la fine della propria vita, almeno come la si concepiva fino a quel momento. Ci sono due possibilità: lasciarsi andare, perdere la speranza e aspettare l'inevitabile o reagire, cercare di lottare per sopravvivere. Pacem ha scelto la seconda via, quella più dura forse, per la condanna sociale che porta con sé, ma anche l'unica che possa dare un futuro. Qui, dove le sue speranze e i suoi sogni muoiono, dove la ragazzina deve aprire gli occhi e accettare la realtà del fallimento della sua famiglia, Pacem rinasce, trova il modo di ricominciare e di reinventare se stessa.
L'autrice è molto chiara nel sostenere il proprio punto di vista: in Africa la forza portante, chi muove davvero le cose e lavora per creare qualcosa di meglio sono le donne. Non tutte: molte sono troppo sottomesse, schiacciate dalla mentalità maschilista che ha soffocato in loro la voglia di lottare. Ma non è dagli uomini nel suo Paese che è partita la rinascita. Ciononostante Pacem non odia gli uomini, con la loro supponenza e il disprezzo per le consorti, non odia nemmeno suo marito, che le ha a tutti gli effetti rovinato la vita. Non è una gara, in fin dei conti, e di uomini buoni e seri, capaci di vivere in modo sano, Pacem ne ha incontrati non pochi nella seconda parte della sua vita. Certo è che si legge tra le righe il desiderio di un cambiamento di mentalità più profondo, che coinvolga la parte maschile della società in modo più forte e diretto, che scardini l'idea della sottomissione della donna alla ricerca dell'uguaglianza.

Se Pacem ha potuto lottare e cambiare la propria vita è anche grazie all'incontro con la Comunità di Sant'Egidio, che in Malawi ha aperto alcuni centri del proprio progetto Dream. In poche parole, si tratta di un progetto di sostegno alla popolazione sieropositiva, con un occhio di riguardo per le donne e i bambini, e di prevenzione della malattia soprattutto nella trasmissione gestante-neonato. Le cure offerte dai centri Dream in Malawi così come in molti altri stati subsahariani sono completamente gratuite e prevedono, oltre allo screening regolare e alle medicine, la fornitura di pacchi alimentari, perché non si può pensare di curare solo coi farmaci una popolazione denutrita o malnutrita in partenza.
Pacem ha affrontato la malattia con loro e ora collabora come attivista del progetto. E' diventata coordinatrice di un centro Dream e ha viaggiato molto, tra Africa ed Europa, per portare la propria testimonianza anche di fronte ai grandi della terra.

Potenzialmente questo libro poteva essere molto interessante e coinvolgente, oltre che informativo. A me piacciono molto le storie vere, le esperienze di prima mano di realtà che io non vivrò mai, come la vita in Africa, per esempio, perché leggere il vissuto e le emozioni di quelle persone mi aiutano a capirne la cultura, il background sociale, la mentalità e il vissuto che influenza il loro modo di agire. Si imparano molte cose, ad ascoltare la vita degli altri, si trovano somiglianze e si cerca di colmare le distanze; inoltre si imparano molte cose anche su noi stessi.
Dicevo che potenzialmente questo libro, senza grandi pretese letterarie, poteva essere molto interessante. Invece dalla metà in poi mi ha proprio stufato. Mentre la storia personale di Pacem e dei suoi bambini occupa pochissimo spazio fra le pagine, raccontata in modo secondo me fin troppo sbrigativo e superficiale, dalla metà in poi si susseguono capitoli interi di lodi sperticate alla Comunità di Sant'Egidio e al suo lavoro. Ora, io non ho nulla in contrario e capisco la riconoscenza che l'autrice prova nei confronti di chi l'ha aiutata a salvarsi, ma per il lettore è proprio pesante leggere tre capitoli di seguito di quanto è bello il centro, come sono gentili le persone e come sono buoni tutti. Va bene, ma piuttosto parlami del loro programma nel dettaglio, dimmi cosa fanno e perché hanno scelto di operare proprio in questa direzione...

Avrei voluto leggere di più delle sue esperienze e difficoltà, delle persone malate che ha conosciuto al centro, della loro storia. Sì, c'è una parte sul finale in cui racconta, in mezza paginetta, la storia di tre o quattro pazienti, ma avrei davvero gradito un approfondimento maggiore anche sulla differenza nel rapporto con la malattia nei diversi ceti sociali. Avrei voluto leggere più commenti sulle problematiche del Malawi, a livello economico e sociale ma anche culturale; avrei preferito che l'autrice desse un'opinione più consapevole della situazione generale. Avrei voluto scoprire di più di tutte quelle figure professionali tipicamente africane, quali i clinical officers, un incrocio tra medici e infermieri che spesso si ritrovano per carenza di personale a gestire da soli gli ambulatori. Avrei voluto infine sapere qual è la percezione del futuro in questi Paesi, quali sono i progetti futuri e, in caso, come si possono aiutare le persone che ancora vivono in difficoltà.
Invece mi sono annoiata. E ci sono rimasta proprio male.

Insomma, il libro aveva tutte le carte in regola per poter essere una buona lettura formativa e si è suicidato. Non è da buttare, ci mancherebbe, anzi, ho imparato molte cose. Solo, avrei voluto impararne di più. Forse alla fine avrei avuto più simpatia per la Comunità di Sant'Egidio e le sue opere senza pensare che questo libro fosse uno spot pubblicitario dedicato...

lunedì 22 agosto 2016

26. Jan-Philipp Sendker - L'arte di ascoltare i battiti del cuore

Più riguardo a L'arte di ascoltare i battiti del cuoreCi sono libri che scegliamo per noi stessi, ci sono libri che ci troviamo tra le mani per caso e altri ancora che invece ci vengono regalati. Questi sono libri un po' speciali, scelti per noi, e a me colpisce sempre il pensiero della motivazione dietro a quella scelta. "Perché" mi chiedo "Tizio ha ritenuto che proprio questo romanzo facesse per me?" Forse ci metto troppa enfasi, forse a volte la scelta è totalmente casuale o dettata dalle proprie preferenze e non incentrata su di me, ma non posso fare a meno di pormi qualche domanda.
Il romanzo "L'arte di ascoltare i battiti del cuore" di Jan-Philipp Sendker mi è stato regalato di recente da una cara amica in occasione di un pranzo. Ci sono persone che per un motivo o per l'altro non ho più occasione di incontrare nella vita di tutti i giorni e quindi è bello ogni tanto creare dei momenti ad hoc per rivederci e aggiornarci. Va da sé che spesso, in queste rimpatriate, finisco a parlare di libri e letture recenti (che fantasia sfrenata, lo so, lo so...) e nell'accennare al mio progetto di giro del mondo letterario la mia amica ha esclamato "Io ho letto un libro ambientato in Birmania!". A quel punto ci siamo fiondate in libreria e lei è stata così carina non solo da infastidire il commesso perché non riuscivamo a trovarlo, ma anche da regalarmelo.
Con questa premessa dovevo dovevo leggerlo al più presto e dedicarle un commento!

"L'arte di ascoltare i battiti del cuore" è una storia romantica, uno di quei libri che non sono portata per mia predilezione a leggere ma che si adatta proprio al periodo estivo di svago e relax.
Nonostante l'autore sia tedesco e abbia vissuto all'estero, in particolare in Asia, solo brevemente per ragioni di lavoro, ha scelto di ambientare questa vicenda in Birmania, nel villaggio di Kalaw. Tuttavia Sendker mostra di avere una buona conoscenza della regione e dello stile di vita del luogo, grazie anche alla consulenza che alcuni amici, citati nei ringraziamenti, devono avergli fornito.

La storia si apre in verità negli Stati Uniti. Protagonista è Julia, giovane avvocatessa rampante di New York, brillante e concentrata sui molti progetti che ha per la sua vita. Un unico neo, un'ombra del passato: quattro anni prima suo padre Tin Win, di origini birmane, è sparito dall'oggi al domani senza lasciare alcuna traccia. Le autorità non sono riuscite a localizzarlo e la madre di Julia pare essersene fatta una ragione, cosa che fa sospettare alla ragazza che i rapporti tra lei e il marito non fossero più idilliaci. La scomparsa del padre però sembra ormai un fatto del passato, per cui lei non può più fare niente, finché non trova una lettera mai spedita tra le carte di suo padre, indirizzata a una misteriosa donna di nome Mi Mi residente a Kalaw, Birmania. Dal tono della lettera è evidente che tra suo padre e questa donna ci fosse un rapporto profondo, una storia d'amore. Corrosa dal dubbio e spinta forse dalla speranza di rintracciare suo padre, Julia molla tutto e decide, dall'oggi al domani, di partire per indagare.

La storia di Julia è una cornice al racconto vero e proprio. Il fulcro del romanzo, il vero cuore della vicenda, è la vita di Tin Win, che Julia scopre nel racconto di U Ba, un uomo di mezz'età incontrato a Kalaw in una sala da tè. Devo dire che io ho empatizzato molto poco con Julia. Mi è stata antipatica fin dall'inizio, a pelle, e non sono riuscita a entrare in contatto con le sue emozioni, col dolore della perdita del padre (che comunque non sembra averla sconvolta più di tanto...) e con le difficoltà che si trova ad affrontare una volta arrivata in Birmania. La storia di Tin Win, invece, mi è piaciuta di più, la segretezza stessa che attorniava il passato di quest'uomo all'apparenza placido e di successo e la voglia di scoprire come fosse arrivato, da una baracca nel villaggio di Kalaw, al centro di Manhattan mi spingevano a continuare a leggere. Il libro è scorrevole e il ritmo è ottimo, quindi la lettura è facile e veloce.

Non avevo aspettative su questo romanzo, ero aperta a qualsiasi cosa, basilarmente, quindi posso dire di averne apprezzato la lettura più di quanto spesso mi conceda. Mi sono piaciuti i tocchi di colore, i riferimenti alla cultura e al paesaggio del Myanmar che mi hanno spinto, come al solito, a setacciare la rete con Google alla ricerca di immagini. Il romanzo ambienta la storia tra la metà degli anni '20 e il 1995, quindi in una Birmania ancora colonia inglese per gran parte della narrazione. E' ovvio dunque che molte delle cose descritte sono cambiate, oggi, e spesso costumi e usanze sono scomparsi col tempo. Ci sono però dettagli deliziosi, come il trucco tradizionale delle donne birmane, l'utilizzo da parte degli uomini di un capo di vestiario particolare, il longy, una sorta di gonna portafoglio annodata in vita, o la vita dei monaci buddisti nei piccoli templi di campagna.
Un altro particolare che mi ha molto interessato è la disabilità inserita in un contesto del genere. Uno dei protagonisti della storia è cieco e proprio da questo problema nascerà la necessità di ascoltare in modo più approfondito, fino a sentire perfino i battiti del cuore delle persone. Non mi ero mai fermata a pensare quanto una problematica come la cecità potesse impattare con la vita di una persona in una società rurale, in cui il lavoro fisico, il settore primario, costituisce la quasi totalità dell'economia. Abituata alle difficoltà che i non vedenti hanno nelle nostre moderne città occidentali, nella mia mente doveva essere impossibile integrarsi in una società simile. Invece l'autore ci mostra un uomo perfettamente inserito, o almeno tranquillamente in grado di vivere la propria vita, padrone del proprio ambiente e accettato dagli altri grazie anche ai suoi talenti. E' stato interessante ripensare alla disabilità come qualcosa su cui la modernità ha fatto passi da gigante e prendere in considerazione la possibilità che, pur con le enormi limitazioni dell'epoca, i disabili potessero avere un ruolo attivo nella società, senza esserne allontanati. Mi piacerebbe in futuro approfondire il ruolo che le comunità religiose buddiste svolsero sotto questo aspetto.

Non posso dire che di questo libro mi sia piaciuto proprio tutto tutto. Ci sono dettagli e scelte dell'autore con cui sono anzi fortemente in disaccordo.
Due sono le cose che mi hanno lasciata più perplessa: alcune svolte di trama parecchio scontate e prevedibili, al punto che dalle prime pagine avevo già intuito alcuni dei colpi di scena finali, e un abbellimento/perfezionamento dei due protagonisti della storia d'amore centrale, Tin Win e Mi Mi, al punto di farne un Gary Stu e una Mary Sue.
Per chi non è del campo della scrittura amatoriale, una Mary Sue, o il suo corrispondente maschile Gary Stu, è un personaggio talmente perfetto da risultare non solo irreale, ma perfino irritante. Una Mary Sue sa fare tutto, ciò che fa lei è sempre per qualche ragione migliore; di solito è bellissima e, se ha qualche difetto, serve solo a renderla più straordinaria. Una Mary Sue è un personaggio che incarna naturalmente il lato buono dell'umanità e spesso le persone ce l'hanno con lei solo perché sono cattive...ma lei non cede mai alla violenza o alla vendetta, di solito la giustizia opera autonomamente per renderle merito. Si arriva fino ai poteri magici e alle capacità soprannaturali. Ecco, diciamo che Sendker non è riuscito a non fare dei suoi protagonisti due incarnazioni perfette di queste macchiette della letteratura...
C'è anche qualche buchetto di trama, qualche dettaglio temporale che non torna e un paio di forzature per far star insieme il tutto.

Insomma, "L'arte di ascoltare i battiti del cuore" non è, dal mio punto di vista, chissà quale grande capolavoro, ma è un libricino leggero e romantico, ideale per rilassare la mente e per intenerirsi un po'. Sicuramente da consigliare a chi ama il genere e vuole godere delle affascinanti atmosfere esotiche dell'Oriente. Da portare ancora una volta sotto l'ombrellone! (Magari l'anno prossimo, che adesso è un po' tardi, ormai...)

domenica 14 agosto 2016

25. Paula Hawkins - La ragazza del treno

Più riguardo a La ragazza del trenoQuali sono le caratteristiche di un buon thriller? Una storia intrigante, un mistero, una crescente tensione e tanti possibili colpevoli. Direi che “La ragazza del treno” ha tutte queste qualità e si presta ad essere un’ottima lettura da ombrellone!

La costruzione del romanzo mi ha intrigata, per quanto non stilisticamente impeccabile. La narrazione è scandita da una sorta di diario, di confessione in prima persona, portata avanti in modo alternato da tre voci, di cui due sono le principali: Rachel e Megan. Corredati da date e momenti del giorno, questi spezzoni di vita, di pensiero si rincorrono nel tempo e conducono il lettore alla scoperta dei segreti di due donne molto diverse ma legate dal destino e, ahimè, nella tragedia.

Rachel è una giovane donna che, dopo il divorzio dal marito, è in preda alla depressione e all’alcool. L’unico svago ma anche l’unica routine rimasta alle sue giornate è il treno pendolari: alle 8.04 quello del mattino direzione Londra, alle 17.56 quello di ritorno a casa. Durante il viaggio guarda fuori dal finestrino, pensa, si compiange, bene e, nel passare di fronte a una casa in particolare, fantastica. Immagina la vita di due persone, una giovane coppia, che sembra così felice da renderla invidiosa ma anche felice a sua volta. Si affeziona loro tanto da battezzarli: Jess e Jason, belli e innamorati, diventano parte integrante della sua vita.
Finché un giorno vede qualcosa di strano, che la sconvolge. E il giorno seguente Jess, che in verità si chiama Megan, scompare.

Una sorta di finestra di fronte, questo treno, un modo per spiare gli estranei e trovare consolazione per la propria vita. Rachel è una persona problematica, ansiosa, che tende ad autocompatirsi e denigrarsi ma, allo stesso tempo, soffre di un’enorme egocentrismo. Soprattutto Rachel è disturbata, emotivamente e psicologicamente, preda di una depressione che ormai le ha risucchiato l’anima e che si alimenta di vino e gin tonic. È proprio questo narratore inaffidabile in parte il fascino di questo romanzo. Per quanto dia sui nervi al lettore con le sue menzogne e trovate brillanti, Rachel è una continua sorpresa proprio per la sua imprevedibilità.

Non è l’unico personaggio disturbato del romanzo. Anche gli altri si distinguono per manie, segreti, torbide storie del passato e lati della personalità insospettabili. Proprio per questo nel corso della narrazione vengono alla luce tanti retroscena, tante verità nascoste che potrebbero spiegare il mistero della scomparsa di Jess/Megan. Una sola però è la storia che conta e il compito di Rachel sarà proprio quello di vedere oltre tutte queste informazioni e distinguere la verità. Rachel dovrà ricordare cos’è successo.

Non sono un’appassionata di gialli e thriller, come amo ricordare ogni volta che ne leggo uno (chissà perché, poi. Di cosa posso dirmi appassionata, che leggo sempre cose diverse?), ma d’estate mi piace dedicare un po’ del mio tempo a riposare la mente, fermare le riflessioni sulla condizione umana e cercare il colpevole. Questo romanzo costruisce la vicenda molto lentamente, l’autrice fornisce al lettore le informazioni alla spicciolata, e in effetti ci si trova ad analizzare mille dettagli insieme a Rachel, passando in rassegna i sospetti, mentre la rivelazione arriva, se non proprio inaspettata, quantomeno di difficile deduzione quasi fino alla fine.
Se qualcuno ama il genere e vuole una lettura interessante per l’estate questo romanzo, che è stato un successo dell’anno scorso, è un’ottima opzione.

giovedì 11 agosto 2016

24. Agota Kristof - Trilogia della città di K.

Ho sentito parlare di questo libro su tantissimi siti, me l’hanno consigliato svariate persone. Quanto l’ho visto sulla libreria di un amico non ho potuto trattenermi e gliel'ho chiesto in prestito. Poi l’ho tenuto per mesi, rapito sulla mia mensola dei libri altrui, senza leggerlo. Sono fatta così, è un dispiacere prestarmi i libri, perché non tornano per un sacco di tempo. Alla fine però agosto è arrivato e con lui la voglia di leggere un romanzo che tutti mi avevano presentato come pesantino e dai contenuti duri.

Posso confermare la durezza dei contenuti, ma pesante non lo è stato per nulla. Anzi. La “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof vola tra le mani del lettore, pagina dopo pagina. Capitoli brevi, tanti avvenimenti ma soprattutto tanti segreti da svelare, tante vite da scoprire. La Kristof narra tutto questo con uno stile schietto, essenziale, frasi brevi e descrizioni concise.

In verità, come d'altronde dice il titolo, questo libro è composto da tre romanzi, che l’autrice pubblicò tra il 1986 e il 1991: “Il grande quaderno”, “La prova” e “La terza menzogna”.
Le tre storie non sono propriamente una la continuazione dell’altra, quanto una dentro l’altra. Sebbene l’autrice dia l’impressione di continuare la narrazione del primo nel secondo, in verità c’è sempre una sorpresa, un colpo di scena che costringe il lettore a riconsiderare ciò che ha letto fino a quel momento e a rimetterlo in una nuova prospettiva, a far spazio a una nuova verità.

La prima parte, “Il grande quaderno” è il più duro e disturbante dei tre. Protagonisti sono due bambini, gemelli, che vengono portati dalla madre in un piccolo paese, a casa della nonna che, fino a quel momento, non avevano mai conosciuto. In fuga da una grande città a causa della guerra, la madre implora la nonna, con cui aveva troncato i rapporti, di accogliere e tenere con sé i bambini per proteggerli dalle bombe e dalla violenza.
La nonna, una vecchia povera e ignorante considerata da tutti una strega perché ritenuta l’assassina del proprio marito, accetta di ospitare i bambini ma riserva loro una vita d’inferno, fatta di lavoro e soprusi e assolutamente priva di affetto. I gemellini si adattano in fretta alla nuova situazione e si inventano mille strategie per resistere alla sofferenza di vivere. 

“Il grande quaderno” è la narrazione della corruzione di due bambini innocenti. La povertà, la guerra ma soprattutto la crudeltà degli adulti che li circondano li trasformano velocemente in piccoli criminali, astuti e spietati, sebbene ritengano nel profondo del loro cuore un forte senso di giustizia.  Il decadimento morale è rappresentato anche in modo fisico: a casa della nonna tutto è sporco, lurido, e anche loro piano piano diventano sempre più sporchi, dentro come fuori.

Sullo sfondo l’autrice descrive la seconda guerra mondiale. Non viene mai nominata una data, così come non ci dà mai riferimenti geografici precisi. Non sappiamo il nome del paese, della grande città vicina, della capitale, della Nazione o del grande fiume, ma lo possiamo immaginare. Possiamo figurarci l’Ungheria dell’ovest, vicino al confine, la capitale lontana oltre il Danubio. Ancora una volta un libro che mi ha spinto a ripassare un po’ di storia e geografia! Le vicende hanno avvio quando la guerra è già in pieno svolgimento, possiamo ipotizzare verso il 1942, e il lettore assiste al progressivo peggioramento della situazione. Durante la seconda guerra mondiale l’Ungheria entrò in guerra al fianco della Germania di Hitler e combatté principalmente sul fronte orientale contro la Russia. Nel ’44, in seguito alle trattative che avrebbero portato l’Ungheria a staccarsi dai nazisti, Hitler invase il Paese, deportando migliaia di persone e prendendo il controllo della nazione. La guerra continuò fino all'arrivo delle forze sovietiche, che presero possesso del territorio Ungherese e ne fecero uno dei loro Paesi d’influenza, parte del Patto di Varsavia. Tutti questi avvenimenti hanno un posto nella storia narrata da Agota Kristof; seguiamo da questo piccolo villaggio di frontiera la storia di un interno continente, l’Europa, gli sconvolgimenti che ne cambiarono per sempre la fisionomia e gli assetti politici.
Anche i protagonisti della storia non hanno nome. La nonna, la madre e il padre, e soprattutto i gemelli, non vengono mai chiamati per nome. Particolarmente forte è l’impressione che questo fa nel caso dei fratellini, che diventano una sorta di unica identità, legati in modo indistinguibile e, a tutti  gli effetti, simbiotici. Per questo sorprende tanto il finale di questo primo capitolo della storia (ma non dirò cosa succede, se no dove sta il bello?).

Il secondo romanzo, “La prova” è incentrato sulla figura di uno dei due gemelli, Lucas, e ne segue la vita fino all'ennesimo colpo di scena finale. Questa seconda parte si concentra di più sull'analisi dei legami umani, la necessità di relazione che unisce le persone. C’è una grande solitudine che pervade il secondo capitolo della storia. Il lettore assiste con amarezza allo scorrere del tempo nel paese di frontiera e non può non provare pena per i suoi abitanti, la loro solitudine, il loro bisogno di contatto e la mancanza di reali legami d’affetto. Si aggrappano gli uni agli altri per non affogare nella tristezza, nell'insensatezza dell’esistenza, ma non riescono mai davvero a non sentirsi soli. Il sesso, il fumo, l’alcool soprattutto non riescono a colmare quel vuoto esistenziale che ogni uomo si porta dentro.

Sullo sfondo ancora una volta la storia, quella dell’Ungheria. Dalla cortina di ferro che divide i Paesi d’influenza sovietica dall'Europa occidentale fino agli anni ’80, l’autrice ci mostra uno scorcio dei cambiamenti che interessarono il Paese. Il regime comunista e la censura, la rivoluzione ungherese del 1956 e la repressione con la fuga all'estero di tanti oppositori del regime, tutto concorre ancora una volta alla costruzione del destino dei protagonisti e delle comparse senza davvero assumere mai il primo piano.

La terza e ultima parte sposta l'attenzione su Claus, scrittore in visita alla cittadina di K. (così scopriamo chiamarsi il villaggio in cui è ambientata tutta la vicenda) arrestato per problemi di visto e in attesa di essere rimpatriato.
Il titolo, "La terza menzogna", fa riferimento a tre bugie che Claus ha raccontato tanti anni prima, tre segreti che ancora conserva gelosamente. La visita di Claus alla città di K. non è finalizzata alla sola vacanza. Claus è malato e vorrebbe morire nella città natia, ma non prima di aver affrontato un'ultima prova: quella di ricostruire la propria identità, riscoprire il proprio passato facendolo riaffiorare dai propri ricordi. Claus ha vissuto una vita fingendosi qualcuno che non era e sotterrando le memorie della propria infanzia nel profondo del proprio cervello, dove sono state rielaborate e sono diventate una storia da narrare.

Il terzo capitolo della serie è meno legato alla storia, meno crudo e più psicologico. Affronta il problema dell'identità, della ricostruzione degli affetti e del modo in cui le vicende che ci ritroviamo a vivere formano la nostra personalità ma influenzano anche il nostro futuro. Non è un mondo felice quello di Agota Kristof; nessuno dei suoi personaggi ha avuto una vita facile o davvero soddisfacente. La vita è anzi vista come un susseguirsi di fatiche e dolori, sebbene gli affetti possano andare ad ammorbidire un po' anche le situazioni più tragiche. Tuttavia anche la perdita degli affetti pare inevitabile in questo mondo... 
La ricerca della parte mancante di sé si conclude in questo romanzo in modo piuttosto negativo. D'altronde con una visione così pessimistica dell'esistenza umana (totalmente giustificata dagli eventi, comunque; non c'è passaggio in cui il punto di vista dell'autrice/dei personaggi non sia comprensibile) non ci si poteva aspettare un lieto fine per questa trilogia. Resta da dimostrare quale sia, in verità, il lieto fine...

[...] Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un'inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione.

Sono più fortunati coloro che se ne vanno o coloro che restano? Meglio morire giovani e non vivere la propria vita, non avere una possibilità, o rimanere, diventare vecchi e portare le conseguenze della mancanza di chi non c'è più? Non esiste alternativa nelle pagine della Kristof. 

Certo, una visione non allettante. Non so se dopo una presentazione simile a qualcuno verrà voglia di leggere questo libro. Ciononostante l'ho trovato veramente bello, intenso, vero, di quella verità che rimane nel tempo, che è la discriminante della letteratura di valore. Sono felice di averlo letto ora, con la maturità dei trent'anni; forse prima non l'avrei capito, non l'avrei gustato fino in fondo. Se avete il cuore forte, se sapete che la vita porta tanto dolore ma non avete paura, perché non siete soli, questo libro non può mancare alle vostre letture.

venerdì 5 agosto 2016

23. Dacia Maraini - La lunga vita di Marianna Ucrìa

Tra un libro da spiaggia e l'altro mi è capitato tra le mani un altro classico e per l'ennesima volta non obbligato dal gruppo di lettura. Cos'è 'sta storia che leggo pezzi da novanta pure italiani così, senza una spinta esterna? Non mi riconosco più...

Non avevo mai letto nulla di Dacia Maraini, ma avevo trovato "La lunga vita di Marianna Ucrìa" tra i libri consigliati in una lista di storie femminili. Mi aveva incuriosito e, essendo io abbastanza femminista, mi sono sentita in dovere di mettere le mani su una copia di questo romanzo.

"La lunga vita di Marianna Ucrìa" fa proprio ciò che ci si aspetta dal titolo: racconta con una serie di flash, di momenti topici, la vita di Marianna, giovane rappresentante della famiglia aristocratica siciliana degli Ucrìa, dall'età di circa 7 anni alla maturità. 
La storia, ambientata nei primi anni del 1700 tra Palermo e Bagheria, dona al lettore uno scorcio storico molto intenso della vita in Sicilia in quegli anni, in particolare della struttura familiare nelle classi più agiate e della condizione femminile, che, è scontato, era piuttosto tragica.

Marianna è una bambina intelligente e riflessiva, ha due sorelle e tre fratelli e un segno particolare: è sordomuta. In un'epoca in cui questo tipo di disabilità non poteva in alcun modo essere compensato, la posizione di Marianna si fa complicata: mentre i suoi fratelli e sorelle hanno tutti un futuro già scritto (il primogenito maschio ereditava tutto, gli altri erano destinati alla Chiesa o all'esercito, mentre per le femmine i genitori sceglievano tra convento e matrimoni combinati) lei non è propriamente adatta a nessun ruolo. Dovendo comunicare ha dovuto imparare a leggere e scrivere, cosa inusuale in un periodo in cui tra le donne anche di classi aristocratiche vigeva il semianalfabetismo, e di conseguenza si è fatta una cultura che potrebbe pregiudicare un'unione matrimoniale (nessun uomo, a quanto pare, avrebbe voluto prendersi come moglie una donna istruita); oltretutto la sua disabilità non è compensata da una straordinaria bellezza e dunque la famiglia non potrebbe sperare di accasarla con un buon partito, ricco e influente. D'altra parte i genitori non sono propensi nemmeno per il convento: questo avrebbe voluto dire versare una lauta dote alla congregazione, per non parlare delle continue spese che una figlia suora avrebbe significato dal punto di vista del mantenimento tra libri, accessori religiosi e non, vesti, cibi prelibati e chi più ne ha più ne metta. Sì, è bene sottolineare subito come il convento, a quel tempo, non volesse dire ritiro in preghiera e povertà per gli appartenenti alle famiglie nobili...
Il destino di Marianna viene deciso quando uno zio, il fratello della madre della ragazzina, eredita parecchie terre, titoli e ricchezze da un parente morto senza eredi diretti: la tredicenne andrà sposa dello zio quasi cinquantenne.

Comincia così la vita da donna di Marianna, a soli tredici anni. Di lì in avanti ci saranno gravidanze, figli a cui badare, dolori e poche gioie, il tutto filtrato dalla cappa di silenzio che circonda la giovane e la separa dalla società. 
E' un brutto mondo quello in cui vive Marianna. E' una società asfissiante, che si aspetta da ognuno una totale abnegazione al ruolo che il destino gli ha dato. Così come i primogeniti sono tenuti a farsi carico di ogni responsabilità e di procreare in abbondanza per la continuità del nome, i figli cadetti devono accettare il loro posto nella Chiesa o in posizioni subordinate e le figlie devono assoggettarsi totalmente al volere dei genitori prima e dei mariti poi. 

E' una brutta vita quella riservata alle donne al tempo di Marianna. Spose bambine (alla faccia di chi dice che da noi queste cose non succedono più dal Medioevo...) fondamentalmente vendute al miglior partito, senza nessuna attenzione per i desideri delle piccole o per l'età e carattere del futuro sposo; per loro si prospettava una sequenza di stupri, gravidanze, parti o aborti e una vecchiaia che, per chi sopravviveva, arrivava già all'età di trent'anni, quando si diventava nonne. Non solo, le donne erano anche tenute a una serie di comportamenti restrittivi a livello sociale che rendevano la loro vita ancora più limitata. I parenti, dai genitori ai fratelli finanche ai figli maschi, avevano diritto di riprendere una donna se si comportava in modo considerato inopportuno e non erano poche quelle che, a causa del proprio carattere ribelle, venivano interdette e rinchiuse. Una donna che si fosse fatta vedere in pubblico in compagnia di un uomo che non era il marito o un famigliare stretto sarebbe stata considerata una poco di buono e un'amicizia anche del tutto innocente con un uomo di classe sociale inferiore era cosa gravissima. Questo per le donne di classe sociale agiata, che se non altro godevano del privilegio di non svolgere duri lavori manuali e potevano intrattenersi con i passatempi dell'alta società; inimmaginabile lo stile di vita delle donne del popolo, che in questo romanzo la Maraini ci mostra sempre e solo dall'esterno, filtrate dagli occhi di Marianna. Una volta sola descrive i vicoli più poveri dei paesi del palermitano e quel poco basta e avanza. 

Dacia Maraini descrive in questo libro la sua amata Sicilia, in particolare il paese in cui è cresciuta, Bagheria, a cui ha dedicato anche altri scritti. Legata proprio a quell'aristocrazia antica e decadente ma orgogliosa dell'isola da parte di madre, la Maraini trasmette nelle pagine tutto il suo amore per una terra dai molti contrasti, che è ricca di sensazioni ed emozioni, profumi e sapori, ma anche di bruttezze e ineguaglianze. Sono tantissime le piaghe della società dell'epoca che tocca durante lo svolgersi delle vicende, tratteggiando una terra allo sbando in cui si va delineando un sistema di soprusi che poi diventerà la mafia e un abbandono volontario alla pigrizia da parte di chi dovrebbe tenere le redini del governo. Il tutto narrato con uno stile agile, fresco, chiaro e incisivo. La Maraini utilizza capitoli brevi che, come una ciotola ci ciliegie, lasciano in bocca la voglia di leggerne ancora uno, uno solo...

Nonostante sia un libro duro e i temi trattati siano tutt'altro che felici, il romanzo scorre velocissimo e non è per nulla pesante. Ci si affeziona facilmente a Marianna, alla sua calma razionalità e al suo bisogno d'amore, che lei nega a se stessa finché può, finché le convenzioni tengono, per poi esplodere in un'ode, quasi, alla femminilità indipendente, che rompe le consuetudini a costo di perdere tutto e va per la propria strada. E ci lascia una speranza, perché nonostante tutto Marianna non sarà mai davvero sola...

Un romanzo che consiglierei soprattutto alle donne, perché capiscano quanto la nostra vita è cambiata negli ultimi duecento anni e quanto è importante lottare perché le nostre figlie siano sempre più libere e padrone di se stesse, nel corpo e nell'anima.

mercoledì 3 agosto 2016

22. Mathias Malzieu - La meccanica del cuore

Più riguardo a La meccanica del cuoreL'estate è periodo di letture leggere e ogni tanto qualche romanzetto romantico me lo concedo anch'io. Quest'anno sono stata terribilmente indulgente con la mia smania di possedere libri e ho approfittato di tutte quelle belle occasioni che si trovano nelle librerie: 2 libri a 15€, 2 libri a 9€... Tra i romanzi che hanno catturato la mia attenzione e sono entrati a far parte della mia corposa libreria c'è questa storiellina fantastica scritta da Mathias Malzieu, frontman dei Dionysos, gruppo rock/pop francese.

"La meccanica del cuore" è una sorta di favola steampunk.
La narrazione inizia una notte del 1874 a Edimburgo, quando una ragazzina appena adolescente si rifugia nella casa di una donna strana chiamata Madeleine, che ha fama di strega e che risolve a suo modo i problemi di molte donne di piacere della città. La giovane arranca fino alla vecchia abitazione, che si trova sulla cima di Arthur's Seat, la collina più alta della città, nonostante il freddo intenso e il peso del bambino che le cresce dentro, ormai giunto a termine. Madeleine la prende con sé e la giovane dà alla luce un bambino piccolo e fragile, dal cuore debole, "ghiacciato". Per salvarlo, la strega gli applica una "protesi", un orologio a cucù che gli salva la vita ma lo rende irrimediabilmente diverso dagli altri bambini.
Il piccolo, battezzato Jack, viene abbandonato dalla madre e cresce nella casa di Madeleine, accudito come un figlio dalla donna che però gli dovrà imporre alcune ferree regole da rispettare, se vorrà vivere a lungo e in salute:
Uno, non toccare le lancette.
Due, domina la rabbia.
Tre, non innamorarti, mai e poi mai.
Altrimenti, nell'orologio del tuo cuore, la grande lancetta delle ore ti trafiggerà per sempre la pelle,
le tue ossa si frantumeranno,
e la meccanica del tuo cuore andrà di nuovo in pezzi.

Va da sé che il giovane Jack, crescendo, si ritroverà a trasgredire a ciascuna delle regole, iniziando un viaggio avventuroso e drammatico sull'onda dell'amore e dei propri sogni, alla ricerca della felicità. 

Ho detto che è un romanzo romantico; infatti "La meccanica del cuore" affronta in modo particolare il più classico dei temi: l'amore. I giovani protagonisti (forse troppo giovani, a parer mio, almeno nella prima parte della storia) fanno rivivere al lettore la potenza inarrestabile del primo amore, del fuoco che nasce dentro all'improvviso e cambia il mondo attorno a noi per sempre. Non sono gli amanti ideali, Jack dal cuore meccanico e Acacia, cantante andalusa drammaticamente miope. Lui è insicuro, timido, spaventato dalla vita di cui ha fatto così poca esperienza e da se stesso, perché quell'orologio a cucù lo fa sentire menomato; lei è una scintilla, bellissima e passionale ma superficiale, volatile, civettuola, difficile da comprendere e da possedere fino in fondo. Tuttavia è bello seguire la loro storia negli alti e bassi tipici dell'innamoramento. 

Insisto forse nel sottolineare che la storia ritrae un amore acerbo, immaturo, perché lo scrittore descrive proprio il sentimento come. se fate una sforzo di memoria del cuore, ricorderete di averlo vissuto in età adolescenziale. Non si ama mai più come quando avevamo 16 anni, con quell'urgenza di darsi completamente e la sicurezza di poter sfidare il mondo per difendere il nostro amore, a discapito di qualsiasi altra cosa. Poi si cresce, si antepone la ragione al fuoco irruento della gioventù e, se da un lato si scopre un sentimento assai più profondo fatto di tenerezza, complicità e progettualità, dall'altro si rinuncia un po' alla spontaneità delle emozioni.
Mathias Malzieu congela in un certo senso questo momento magico della vita, stiracchiandolo un po' in una storia d'amore che, col passare del tempo, verrà messa alla prova duramente.

L'autore ha uno stile particolarissimo. Non saprei dire se sia una sua caratteristica anche nella composizione delle canzoni, dal momento che non capisco il francese, ma la resa narrativa è deliziosa. Il romanzo è costellato da descrizioni traboccanti metafore, similitudini, immagini e colori associati in un effetto sinestetico finale davvero particolare. Anche la più comune delle azioni diventa speciale, come 

Comincia a struccarsi, leggiadra come un serpente rosa che fa la muta.

o

Il breve silenzio che segue è dolce come una tempesta di margherite.

La storia è, tutto sommato, godibile ed emozionante, ricca di simbologia che offre diversi livelli di profondità nella lettura. Non è un'opera imperdibile, probabilmente, ma l'ideale per addolcire le notti romantiche d'estate.

Da questo romanzo è stato tratto, nel 2013, un film d'animazione dal medesimo titolo ("Jack et la Mécanique du cœur"). L'ho guardato e l'ho trovato delizioso. La storia differisce molto da quella del romanzo dalla seconda parte in poi ma l'animazione e le musiche meritano una visione. Vi metto un paio di video qui sotto per farvi venire l'acquolina...


Il primo incontro tra Jack e Acacia


Jack e Acacia si ritrovano alcuni anni dopo...

Da guardare obbligatoriamente in francese, mille volte più bello. Buona visione e buona lettura!



domenica 31 luglio 2016

21. Portia De Rossi - Unbearable Lightness: a story of loss and gain

Più riguardo a Unbearable LightnessSaltando da una lettura da spiaggia assai classica a un'altra, non molto da ombrellone ma assai più contemporanea e anche abbastanza nazional-popolare, il mese di luglio ha visto come protagonista dei miei momenti di svago per parecchi giorni l'autobiografia di Portia de Rossi.
Attrice conosciuta come l'algida Nelle Porter nel telefilm Ally Mcbeal e che da allora ha preso parte a diverse serie tv di discreto successo, è forse salita alla ribalta, almeno nella cronaca scandalistica, per la sua relazione omosessuale con la famosissima presenter americana Ellen DeGeneres, con la quale è convolata a giuste nozze nel 2008.
Non so quanto sia giusto chiamare il suo primo e al momento unico libro, peraltro non ancora edito in Italia, un'autobiografia. Di certo l'ha scritto lei e di certo mette a nudo molte delle sue vicende più intime. Forse la miglior definizione sarebbe autobiografia tematica; infatti lo scopo di Portia non è raccontarci un po' della sua vita, ma un fetta specifica, molto drammatica ed importante, che l'ha portata quasi alla morte: gli anni di lotta contro bulimia e anoressia.
Questa donna, che prima di fare l'attrice ha lavorato per una decina d'anni come modella, ha iniziato a soffrire di disturbi dell'alimentazione praticamente appena intrapresa la carriera artistica, all'età di 12 anni. Questa donna, che io ricordo come un'apparizione tra le donnine un po' grigie di Ally Mcbeal e che ho sempre ritenuto estremamente attraente e sensuale per quanto non perfetta, ha trascorso anni e anni della propria vita a odiare il proprio corpo, se stessa, e a cercare di cambiare ciò che considerava inaccettabile per sentirsi infine davvero fisicamente perfetta. Stiamo parlando di questa donna qui:
Dal mio punto di vista è inconcepibile che qualcuno in grado di apparire così bello in televisione possa sentirsi inadeguato, ma è stato proprio questo uno dei motivi per cui ci ho tenuto tanto a leggere questo libro.

Ho scoperto della pubblicazione di "Unbearable Lightness" ("Insostenibile leggerezza") da un video di Youtube, un'intervista nel talk show di Ellen dal forte carico emotivo e che mi ha davvero colpita. La prima cosa che ho pensato, dopo l'incredulità iniziale è stata: questa donna è davvero coraggiosissima.
Non so quante persone nella stessa condizione avrebbero avuto la forza di esporsi così all'attenzione pubblica e al giudizio della gente, che si sa non vede l'ora di far sapere al mondo ciò che pensa.
Purtroppo il video in questione è stato rimosso e non sono riuscita a trovarne una copia in nessun angoletto illecito del web.

Una delle cose che mi ha più colpito della storia di Portia è la solitudine che l'ha accompagnata in tutti quegli anni, come se un muro costruito per lo più da se stessa e fatto di ambizione sfrenata e insicurezza allo stesso tempo le impedissero di avere un rapporto sincero e di fiducia con chiunque la circondasse, dalla sua famiglia a quelle che lei considera e chiama le sue migliori amiche. Un'incapacità quasi di creare legami autentici e un'inclinazione alla recitazione anche nella vita che di certo non ha giovato nel momento in cui i segreti che nascondeva al mondo iniziavano a diventare enormi. Portia non è una vittima di qualcosa o qualcuno, non si presenta come un esserino delicato e perfetto abusato da una società crudele; anzi mostra il peggio di sé, la propria testardaggine, il bisogno di attenzioni spasmodico e incontrollato, l'incapacità di prendersi cura di chiunque altro, tutta presa dalle proprie ossessioni. E' una donna vera, piena di angoli bui e per questo, forse, più avvicinabile.

Il libro non segue un percorso cronologico lineare, per quanto si possano evidenziare, come inizio e fine della narrazione, l'ingresso nel cast di Ally Mcbeal e l'inizio della sua relazione con Ellen. Tra i flashback e le riflessioni, Portia dipinge il quadro di una vita passata in balia della propria estetica e del giudizio esterno, e la cosa che rende davvero interessante questo libro è che lo fa dal punto di vista della malata, dell'anoressica convinta di essere nel giusto, riportando i pensieri e le sensazioni che hanno ottenebrato la sua capacità di giudizio in tutti quegli anni. Il lettore quindi si cala completamente nella mente della persona disturbata e fidatevi, la sensazione è tutt'altro che gradevole. Ho avuto momenti in cui la lettura si è fatta davvero faticosa e momenti in cui avrei voluto strangolare Portia, così come istanti di pena straziante e di rabbia contro un mondo che invece di aiutarla le mandava messaggi di rinforzo positivo alla sua logica malata.
Portia è molto delicata nel parlare delle colleghe, che in quel periodo erano tutte malate di anoressia nervosa (perché si sa che il mondo delle star è costellato da gente che sta proprio proprio bene...), non le espone mai con troppa crudeltà, cosa che invece fa con se stessa; tuttavia non si esime dal denunciare un sistema di canoni di bellezza e di monopolio del gusto estetico che a tutti gli effetti devasta l'autostima delle donne e spinge le più fragili a gesti estremi.
Portia è una donna di media altezza, sul 1,70 cm, che sarebbe normalmente portata ad un peso di circa 55 chili. Non è una donna particolarmente minuta, seppur magra, e al suo ingresso nel mondo del cinema si rese conto che la sua taglia, tra la 6 e la 8 in America (una 42/44 in Italia) sarebbe stata inaccettabile. Non mi sorprende: per anni io ho portato una taglia 46 venendo tacciata di obesità e sentendomi dire da alcuni negozianti che non avevano "nulla che potesse entrarmi" (testuali parole). Io ho reagito ingrassando ancora di più, probabilmente; lei invece ha cominciato a inasprire una tendenza alle diete da fame e alla bulimia che già la accompagnavano dall'adolescenza. D'altronde è con orrore che si legge dell'umiliazione che è stata costretta a subire in occasione del primo spot L'Oréal, per cui è stata testimonial: trattata con disprezzo assoluto da chi doveva scegliere come vestirla, perché loro non avevano mai preso in considerazione che lei potesse avere una taglia superiore alla 4 (una 40 in Italia), le è stato persino rinfacciato che colleghe precedentemente passate tra le loro mani avevano addirittura una  0 (cioè una 36)! Ora, niente in contrario alla taglia 36 su ragazze minute, dalla struttura esile e plausibilmente dall'altezza un tantino inferiore, ma pensare che una donna possa portare la 36 ed essere alta 1,70 è follia pura...

Ad ogni modo, Portia ci trasporta con una determinazione quasi dolorosa per il lettore sempre più giù, nell'ossessione malata per il cibo e l'attività fisica. Nel momento più drammatico Portia arriverà a pesare circa 36 chili seguendo un regime alimentare di circa 400 calorie al giorno e dovrà riprendere a mangiare per l'improvviso crollo del proprio fisico. L'anoressia è una malattia orribile dal punto di vista psicologico, che porta ricadute gravissime sulla vita personale, familiare e sociale in genere, ma non bisogna trascurare la componente fisica. Portia si è ritrovata a 25 anni con una grave forma di osteoporosi che le impediva praticamente di muoversi, una cirrosi epatica e livelli di potassio ai limiti del collasso generale, tanto che i medici avevano anche ipotizzato che potesse essere affetta anche da lupus ("Ma non è mai lupus!" citazione colta per chi la coglie...).
La strada per uscire da questi problemi è molto lunga e disseminata di ostacoli, per lo più provenienti dall'interno della propria testa. Pur sapendo di aver bisogno di riprendere a mangiare per guarire non è facile vedere il proprio corpo che torna pieno, agli occhi della malata paffuto, e a volte il giudizio dei paparazzi e del pubblico è terribile. Chi è stato malato una volta viene costantemente scrutato e giudicato, perché sarà inevitabilmente troppo grasso o troppo magro, e quindi di nuovo malato. Ricordo con tristezza le vicissitudini di Christina Aguilera e il modo in cui la stampa, al suo rientro dopo essere stata in cura per la sua evidente anoressia, l'aveva descritta come "grassa" per via del ventre leggermente arrotondato... (Faccio riferimento all'uscita del video "Dirrty", andatevelo a vedere e traete le vostre conclusioni...) Portia è stata fortunata forse perché ha trovato sulla sua strada persone che le hanno voluto bene veramente e l'hanno aiutata a intraprendere un percorso anche e sopratutto di liberazione dalle proprie paure, dalla negazione di se stessa.

Ogni pagina del libro trabocca dell'odio di Portia per il proprio corpo, ma dietro a ogni momento di crisi c'è un'altra ombra, più profonda: il terrore di essere scoperti per ciò che si è davvero. Portia ha sempre mostrato una predisposizione per la fuga da se stessa, tanto che a quindici anni decise di cambiare nome (Portia de Rossi è un nome d'arte; il suo vero nome sarebbe Amanda Rogers) per scappare dalla banalità, dalla possibilità che un'altra ragazza si chiamasse nello stesso modo.
Arrivata all'età adulta, Portia sapeva di essere lesbica, e sebbene sia stata sposata con un uomo per qualche tempo non ha mai avuto dubbi sulla propria attrazione per le donne. Purtroppo però vent'anni fa il mondo non era molto aperto all'omosessualità...e a ben vedere nemmeno oggi la situazione è tanto rosea. Allora però, soprattutto per coloro che facevano parte del mondo dello spettacolo, ammettere pubblicamente la propria omosessualità poteva voler dire essere ostracizzati. Proprio Ellen DeGeneres visse sulla propria pelle questa bella esperienza e Portia, così come tanti colleghi nell'armadio, avrebbero fatto di tutto pur di non far scoprire alla stampa la verità. Questo voleva dire negarsi ogni tipo di relazione sentimentale, nel terrore che anche solo un'uscita amichevole potesse mettere la pulce nell'orecchio di qualche paparazzo. Come si può ben immaginare, la tossicità di tenere nascosta una parte di sé unita alla negazione di relazioni forti e all'ossessione per la propria immagine hanno portato la bella attrice al tracollo.

Per quanto possa suonare sdolcinato, è proprio l'amore che salva. Come mille volte abbiamo sentito dire, nulla ha il potere di ridare la vita come l'amore incondizionato di chi ci sta a fianco. Vero, si può guarire e vivere pienamente una relazione solo se ci si ama da soli prima di tutto, ma avere qualcuno che ti vede nei momenti peggiori della tua vita e ciononostante ti ama e ti desidera riempie qualche buco di stima.
Portia ha avuto due donne che l'hanno aiutata ad uscire dal buco nero dell'anoressia: Francesca Gregorini, con la quale però Portia non si sentì di venire allo scoperto pubblicamente, e Ellen DeGeneres, sua attuale compagna. Portia ricorda il giorno in cui incontrò Ellen per la prima volta: pesava 76 chili, il massimo che abbia mai raggiunto, ed Ellen si innamorò di lei all'istante.
L'autrice dice che non si può dire di avere un rapporto davvero sano col cibo finché si segue una qualche dieta. Sostiene che qualsiasi dieta, se richiede restrizioni di alimenti o calorie (che è il presupposto fondamentale di ogni dieta, se non erro) è in qualche modo un inizio della malattia che in lei ha preso tanto piede. Quando ci si nega qualcosa si scatena il desiderio di averla e più ce lo si nega più si accumula il desiderio. Al termine della dieta ci si riempie così tanto di tutto ciò che non si è potuto avere nei mesi precedenti che si finisce per riprendere tutto il peso perso se non di più. Mangiare in modo ordinato, cioè non malato, è permettersi di mangiare di tutto quando ci va ma senza l'ansia che sia l'ultima chance, perché "potremo sempre mangiarne ancora il giorno seguente".
Quest'idea dell'alimentazione mi piace, devo dirlo. Suona sano e meno ossessivo delle mille regole sventolate da questo o quel regime alimentare.

Ho voluto tanto leggere questo libro perché l'argomento mi tocca da vicino. Pur non avendo mai sofferto di anoressia non posso dire che il mio rapporto col cibo sia sempre sano; al giorno d'oggi dubito che molti possano sostenerlo in piena sincerità. Ho portato per molti anni il peso del giudizio, dell'essere considerata grassa; a ben vedere fin dall'età di 12 anni, quando Portia ha iniziato a mettersi a dieta. Non credo che le persone capiscano quanto fa male questo tipo di giudizio, se no non si starebbe ancora a discutere di modelle preadolescenti anoressiche sulle passerelle dell'alta moda internazionale.
Leggere della lotta di una donna bella e famosa in qualche modo ha aiutato la mia autostima. Mi ha confermato che, se qualcuna delle star è semplicemente fortunata, la maggior parte di loro combattono costantemente contro il proprio peso, infliggendosi danni non indifferenti. Portia de Rossi non è stata la prima e certamente non è l'ultima né la sola in questa guerra estetica che ci vuole filiformi a tutti i costi, delicate, fragili, innocue.
"Unbearable lightness" non è un libro leggero da mandar giù, ma vorrei che gli uomini e le donne che non si amano lo leggessero e capissero di non essere soli." Purtroppo non credo che ne vedremo mai una versione in italiano...

lunedì 25 luglio 2016

20. Horace Walpole - Il castello di Otranto

Più riguardo a Il castello di OtrantoAffrontare un classico è sempre un po' ansiogeno per me. Chissà se sarà un mattone illeggibile o se mi stupirà, dando prova di essere sopravvissuto ai secoli non solo per il proprio valore artistico innovativo ma anche per una trama avvincente?
Per chi, come me, ha fatto dell'inglese una professione, "Il castello di Otranto" di Walpole marca un passaggio fondamentale: la nascita del romanzo gotico.

Scritto nel 1764, il romanzo è stato un successo immediato ed è stato l'iniziatore di un genere che, negli anni successivi, ha contato parecchie opere rimaste nella storia della letteratura, come "I misteri di Udolpho" di Ann Radcliffe o "Il monaco" di Lewis. Forse al giorno d'oggi questi titoli non dicono granché alla maggior parte delle persone, ma all'epoca segnarono un vero fatto di costume e la mania del genere gotico si diffuse al punto che Jane Austen ne immortalò le conseguenze nell'opera dal forte carattere ironico "Northanger Abbey".

Eppure l'autore non credeva davvero di poter avere un tale successo. Anzi, la prima edizione fu pubblicata sotto pseudonimo e falsamente presentata come la traduzione di una cinquecentesca opera italiana. Insomma, più di così non avrebbe potuto nascondersi. Solo dopo aver assistito al trionfo editoriale incredibile Walpole ammise la paternità del romanzo, pur schermendosi e giustificando alcune scelte stilistiche e di caratterizzazione, quasi ne fosse comunque imbarazzato.
Cos'aveva questo libro di tanto mortificante?

Sinceramente non lo saprei proprio dire, perché io l'ho trovato anzi un romanzo accattivante e scorrevole, pieno di colpi di scena e svolte inaspettate. Certo, non posso non ammettere che gli anni si sentano; al giorno d'oggi nessuno scriverebbe un libro del genere ricevendo un tale successo di pubblico. Tuttavia vale a mio avviso davvero la pena di leggerlo, tanto più che è davvero breve e va giù tutto d'un fiato. Probabilmente ciò che affliggeva Walpole era il giudizio dei letterati del periodo, che associandolo ad un libro frivolo, per così dire, d'intrattenimento, avrebbero potuto snobbarlo come intellettuale.

La storia si svolge presso il castello di Otranto, dove il principe Manfred vive con la moglie Hippolita e i due figli, Conrad e Matilda. La corte è in festa, perché si festeggiano le imminenti nozze tra il giovane Conrad e la bella Isabella. Il primo shock però è già in agguato: la mattina delle nozze Conrad viene ritrovato morto, schiacciato da un enorme elmo piumato apparentemente piovuto dal cielo all'interno del cortile del castello. Manfred ne vederlo inizia a tremare: lui sa infatti che sul suo principato grava una funesta profezia...
Così si avvia la vicenda che subito stupisce il lettore e lo lega a sé fino all'ultima pagina. Da dove viene quell'elmo? Cosa significa l'oscura profezia? E perché Manfred teme tanto di perdere il proprio titolo nobiliare e il castello di Otranto?
La trama è una catena di eventi sorprendenti, che si intrecciano e complicano la vicenda tendendo tutti verso il punto di chiusura finale. Se dovessi fare un parallelo tra quest'opera e una simile narrazione moderna la comparerei ad un soap opera o ad uno di quei telefilm che ad ogni fine puntata lasciano gli spettatori col fiato sospeso, scoprendo una nuova carta del mistero di fondo.

Siamo nella seconda metà del Settecento, nel Regno Unito il romanzo è ormai un genere affermato e che vanta una certa tradizione. Quello che Walpole produce è un libro di intrattenimento puro, che se al giorno d'oggi può sembrare in alcuni momenti quasi buffo all'epoca doveva essere davvero emozionante e inquietante. D'altronde la fantasia di Walpole è davvero incredibile. Ma chi mai avrebbe costruito un intero romanzo da un enorme elmo che piove sulla testa di uno sventurato giovane? Genio assoluto.

Anche i personaggi sono interessanti e, sebbene appaiano caricaturali, mostrano situazioni e tipologie umane davvero esistenti, in particolare in epoca medievale.
Manfred è il principe cattivo, freddo e cinico, interessato solo al potere e ad affermarsi a qualsiasi costo, a sprezzo della religione e del buon gusto persino. Hippolita la moglie fedele e innamorata, sottomessa al marito anche a costo di sacrificare se stessa all'infelicità. Matilda è la figlia intelligente e dal carattere forte, quasi ribelle (se la si inquadra nel periodo storico d'ambientazione della storia la sua indipendenza di pensiero e sentimento non può che essere vista come tale).
E poi ci sono tanti altri personaggi: il cavaliere senza macchia, il giovane di umili origini ma di animo nobile, la cameriera fedele e scaltra, il monaco dal passato doloroso e misterioso... Davvero un elenco che potrebbe continuare e che riserva sempre nuove sorprese.

Ci sono situazioni e reazioni dei personaggi che forse al lettore moderno paiono strane o irragionevoli, ma collimano perfettamente con la mentalità e le consuetudini medievali.
Mi ha colpito molto ad esempio la pratica dell'annullamento del matrimonio diffusissima in quel periodo e in verità molto facile da ottenere per i nobili con l'aiuto di una discreta offerta alla Chiesa. Nonostante il divorzio sia da poco legale in Europa, per centinaia di anni l'aristocrazia ne ha fondamentalmente usufruito grazie alla regola che vietava a persone legate fino al settimo grado di parentela di sposarsi. Visto che i nobili tendevano a sposarsi sempre tra loro era ben difficile trovare qualcuno che non fosse proprio parente... Esempio famoso ne è l'annullamento tra Luigi VII re di Francia ed Eleonora di Aquitania, che grazie a questo divorzio potrà sposare il re d'Inghilterra Enrico II.
Insomma, immerso nell'epoca storica di riferimento, cioè il Medioevo, la storia acquista un gusto realistico nel suo sviluppo fantastico.

Nel complesso quindi ritengo che "Il castello di Otranto" sia un romanzo godibilissimo anche al giorno d'oggi, velocissimo da leggere e, oserei dire senza voler risultare blasfema, quasi da ombrellone. Non serve certo dedicare alla vicenda grande sforzo intellettuale; soltanto lasciarsi prendere dai mille colpi di scena e abbandonarsi al gusto un po' barocco della fantasia...