domenica 28 febbraio 2016

6. Venere privata - Giorgio Scerbanenco

Più riguardo a Venere privataNon sono una grande amante dei gialli. Che si sappia, non mi piacciono gli hard boiled e in genere mi annoia abbastanza questo tipo di lettura. Sarà dunque facile immaginare la mia sorpresa quando, leggendo questo romanzo per il gruppo di lettura, l'ho trovato davvero godibile e particolare.
Scerbanenco ha un modo di scrivere intrigante, davvero insolito. Ciò che più mi ha colpito, fin dalle prime pagine, è la sua capacità di mischiare a scene crude e a tematiche forti battute e commenti ironici davvero divertenti e tutt'altro che fuori luogo. Questo linguaggio, così poliedrico, rende la lettura scorrevole e piacevole nel suo insieme, ed inoltre ha il gran pregio di alleggerire un po' la tensione dei colpi di scena più duri e di togliere un po' di solennità al protagonista, Duca Lamberti.

"Venere privata" è il primo libro di una serie il cui protagonista, il succitato Duca Lamberti, nel tentativo di rifarsi una vita dopo essere stato in galera, inizia a lavorare a stretto contatto con la polizia come una sorta di investigatore privato. Il personaggio di Lamberti è tratteggiato in modo molto chiaro e si svela a mano a mano tra le pagine del romanzo, rivelando un passato tormentato segnato da lutti e da un errore (o dovremmo chiamarla una scelta etica troppo ardita?) che ha distrutto tutto ciò che lui con il proprio impegno era riuscito a costruire. Un ex medico, profilo insolito per un detective, ma forse grazie a questo differente da ciò a cui siamo abituati.
Non che Lamberti brilli per empatia o tenerezza. Lungi da lui, è un uomo che ne ha viste tante, che ha nervi d'acciaio e si sa difendere. Uno che non si fa scrupoli e che dà alle cose il proprio nome, senza girarci tanto attorno. Un uomo affidabile, però, con grande professionalità e senso del dovere oltre a un amore per la giustizia (secondo se stesso, chiaramente) che lo porta a scelte anche estreme. Non è un romantico né si tira indietro quando c'è da rischiare - anche quando a rischiare la pelle sono gli altri e non lui. Insomma, un bel personaggio a tutto tondo, in cui ogni tassello va dritto al proprio posto senza forzature.

Scerbanenco ha uno stile fluido e un ritmo narrativo davvero accattivante, cosicché il racconto non langue mai. Dopo aver letto questo libro ho guardato qualcosa sulla sua biografia e sono rimasta basita di fronte alla sua immensa produttività narrativa. Un grafomane nel vero senso della parola. Non ho idea della qualità del resto delle sue opere, ma se tanto mi dà tanto questo autore ha regalato al mondo parecchie ore di delizioso intrattenimento sul filo dell'inquietudine e non. Sicuramente a me ha fatto venir voglia di leggere il seguito di questo romanzo: si tratta di una quadrilogia e i titoli sono quasi tutti abbastanza famosi. Voci di corridoio mi hanno sussurrato che il terzo capitolo della saga sia una mazzata incredibile, ma se un'anima buona me li presterà sarò ben lieta di giudicare da me. (N.d.a.: ieri sera mi sono stati prestati. Gioiamo! Grazie Tenar! :) )

Al centro delle vicende, quasi fosse uno dei personaggi principali, troneggia Milano. Si tratta della Milano dei primi anni '60, in pieno boom, ricca ed elegante, ma ancora vivibile, sebbene si profili all'orizzonte un'atmosfera sempre più fredda e impersonale, sempre meno a misura d'uomo. Pur vivendo parecchio vicino al capoluogo lombardo non conoscevo l'esistenza di Metanopoli e leggerne la storia è stato affascinante (no, le notizie su Metanopoli non sono contenute all'interno del romanzo, ma sono schiava della mia curiosità e di Wikipedia). Anche la figura dell'industriale con la "fabbricheta", oggi diventata una maschera caratteristica della zona, mi ha divertito. Mi è parso di ripercorrere un pezzetto della vita dei miei genitori, sentire l'odore delle strade su cui camminavano da ragazzi, e per calarmi ancor maggiormente nel periodo storico mi sono lasciata trasportare dalle note dei successi radiofonici di quegli anni. Il mix è stato un successo.

Il romanzo, ad ogni modo, riesce a trattare, tra le righe di un omicidio/suicidio e delle indagini di Lamberti, temi molto caldi e attuali tuttora: la prostituzione e il suo sfruttamento, la malavita organizzata, l'alcolismo e le sue radici nel disagio psicologico, l'eutanasia. Scerbanenco è modernissimo nella scelta delle tematiche e anche nella descrizione delle donne: i personaggi femminili da lui creati non sono quasi mai eteree e fragili icone della femminilità stereotipata, quel tipo di ragazza che ha bisogno di un uomo vero per sentirsi al sicuro; sono invece donne forti, decise, che soffrono ma non si arrendono, che lottano e fanno le proprie scelte in modo indipendente, a volte sbagliando, ahimè, in modo clamoroso. Sarà stata la figura di sua madre e delle donne con cui è cresciuto a ispirare Scerbanenco? Comunque sia bisogna rendergli merito di una descrizione del femminile finalmente al di fuori degli schemi.

Consiglio caldamente la lettura di questo romanzo, anche solo per passare qualche ora di relax in compagnia di un libro che ne valga la pena. Recuperando gli altri romanzi della serie, mi riservo di fare una seconda puntata su questo autore, forte di qualche dettaglio in più. Comunque uno scrittore che vale davvero la pena di conoscere a fondo.

giovedì 25 febbraio 2016

5. Racconti d'amore, di follia e di morte - Horacio Quiroga

Più riguardo a Racconti d'amore, di follia e di morteIl mio giro del mondo questo mese mi ha portato in Uruguay. O meglio, tra Uruguay e Argentina, perché Quiroga, l'autore da me scelto, pur essendo nato e cresciuto in Uruguay, trascorse quasi tutta la propria maturità e vita creativa in Argentina, prima a Buenos Aires e poi nella sperduta regione di Misiones, al confine con il Brasile e tristemente nota per una carneficina (gentile contributo di YouTube dal film qui).

Horacio Quiroga è un autore poco conosciuto e poco apprezzato da parte della critica letteraria. E' stato paragonato a Poe e Kipling, ma i suoi lavori vengono considerati di livello assai più modesto. Da ciò che ho letto non posso dare alla critica del tutto torto...

La raccolta "Racconti d'amore, di follia e di morte" contiene una selezione dai 200 racconti dell'autore. Mai titolo fu più azzeccato. Non si può non notare il trend che sottende alla stragrande maggioranza delle storie. La morte è un tema quasi immancabile, tanto che si possono contare sulle dita di una mano i racconti in cui non muore nessuno. Tanta ossessione per un tema tanto lugubre potrebbe sorprendere o far storcere il naso se non si conoscesse un po' la vita dell'autore. Infatti il buon Quiroga fu segnato non poco dagli scherzi del destino. Suo padre morì sotto i suoi occhi di bambino, forse suicida. A seguire si suicidarono il patrigno, la prima moglie, lui stesso morì suicida sospettando forse di essere malato di cancro e dopo di lui si suicidarono i figli. Una carneficina, insomma. A Misiones tira una brutta aria, non c'è che dire... Come se non bastasse a 24 anni uccise anche per errore il suo migliore amico, fatto questo che risaputamente non fa granché bene alla psiche. Con un tale presupposto, qualcuno si sorprende ancora che abbia fatto della morte il tema principale della propria vena creativa?
In verità il modo in cui la morte viene descritta è anche interessante. La maggior parte delle volte quella che giunge è una morte inattesa, che trafigge l'uomo (o la donna, o l'animale...) impreparato, che coglie di sorpresa. Ma non manca la morte per malattia, una morte, questa, annunciata, presentita, temuta ma anche affrontata con rassegnazione, nella consapevolezza della propria limitatezza di esseri viventi. Quiroga non si sofferma sul significato della vita o su cosa ci attenda dopo il grande passo. In un solo racconto fa apparire dei presagi di morte quasi fossero fantasmi, invisibili agli occhi umani ma percepiti dagli animali. Cosa però essi siano non è spiegato e rimane in secondo piano. Il lettore in verità è troppo concentrato sulla fredda e dolorosa realtà del momento per interrogarsi sul futuro.

A mio parere ciò che riesce meglio a Quiroga nei suoi racconti è la descrizione dei diseredati, dei disperati, dei vinti alla Verga. Quando ci porta con sé nella selva di Misiones lungo il Paranà e l'Iguazu dove il bosco diventa foresta amazzonica, incontriamo i poveri, gli indios e gli uomini di fatica, un popolo di rifugiati e ribelli che qui spesso trovano una via di fuga dalla società. E' una vita disperata quella che la maggior parte delle persone conducono qui. Ora, sebbene io parli al presente, i racconti sono stati scritti un centinaio d'anni fa, ma non saprei dire quanto le condizioni lavorative in queste zone siano migliorate col passare del tempo. In tutta sincerità non ne sarei così certa...
Grazie a questo libro ho scoperto dell'esistenza di uomini chiamati mensù, operai che venivano pagati in anticipo per un contratto di svariati mesi e che avrebbero dovuto onorare ad ogni costo lavorando nelle foreste in condizioni quasi bestiali, senza poter tornare in città neppure per curarsi. Sono quasi tutti uomini e donne dure, che hanno fatto scelte di vita estreme o che non hanno alcuna scelta se non quella di logorarsi nella fatica, tamponando al meglio il dolore che ne deriva con alcool ed eccessi. I protagonisti dei racconti di Quiroga non solo devono confrontarsi con una società violenta e spietata e guadagnarsi da vivere spaccandosi la schiena ogni giorno; anche la natura è un ostacolo, una sfida continua, con i suoi animali che sanno essere letali, una terra che si incapriccia e da fertile diviene sterile e il tempo atmosferico a flagellare il passaggio delle stagioni con siccità e piogge torrenziali. Tutto in questi racconti è duro, stridore di denti direbbe il Vangelo, e ogni successo è un traguardo personale che ha dell'eroico. Tuttavia di successi, nei racconti di Quiroga, non se ne vedono molti.

Sarà per queste tematiche fosche che l'argomento secondo me meno azzeccato nelle sue storie è quello dell'amore romantico. Nell'atmosfera plumbea in cui i personaggi si muovono c'è sì spazio per l'amore, ma è un amore di sacrifici, un amore violento, a volte folle, un amore che finisce male. I pochi racconti in cui il finale non è amaro sembrano fuori luogo, nella visione d'insieme.

Se dovessi nominare i racconti che mi sono piaciuti di più citerei "Una stagione d'amore", che narra la nascita e il declino di un amore puro, "Il solitario" e "La gallina sgozzata", racconti di follia omicida, "Il cuscino di piume", storia dal sapore horror. Molto particolare la storia "Il selvaggio", quasi fantascientifica col suo tuffo nella preistoria, e terribile per crudezza "Uno schiaffo". Altri racconti scivolano via senza lasciare il segno, quasi noiosi nell'ovvietà dell'autore, ed è per questi che dispiace, perché abbassano di molto la qualità dell'opera nel suo insieme.

Insomma, non proprio un autore che consiglierei in futuro. Ciononostante sono contenta di aver assaporato l'amarezza della selva sudamericana, un luogo che mi era finora totalmente alieno.

Piccola nota a parte: devo anche ringraziare questo libro per avermi suggerito qualche ricerca su internet delle meravigliose cascate dell'Iguazu. Questo sistema di cascate al confine tra tre stati (Argentina, Brasile e Paraguay) toglie il fiato da quanto è bello. Mi piacerebbe sentire qualche racconto da chi ha avuto la fortuna di vederle dal vivo...

lunedì 15 febbraio 2016

The Dark Tower Series - Stephen King

Più riguardo a La Torre NeraMi sono accorta con un brivido di orrore che ho iniziato questa serie più di un anno e mezzo fa. Non posso dire di non esserne stata attratta in passato: amando King come scrittore e il fantasy come genere, ho sempre desiderato mettere le mani su questi libri. Ciò che mi ha fermato per anni, invece, è l'imponente mole di questa serie: come se ad ogni libro le pagine lievitassero King è passato da un libricino come "L'ultimo cavaliere" al mattone di 1130 pagine che completa la serie, "La Torre Nera" appunto. Essendo una lettrice entusiasta ma lenta, ho rimandato e rimandato il momento di approcciare questi romanzi. Evidentemente c'è un tempo per tutto e il ka (nessun altro termine sarebbe qui più appropriato) ha scelto di mandare sulla mia strada un'appassionata di questi romanzi che mi ha, più o meno esplicitamente, obbligato a leggerli.

La prima cosa che sicuramente va detta è che Stephen King qui ci porta con sé attraverso un mondo completamente nuovo e il viaggio vale di per sé il biglietto. L'ambientazione post-apocalittica mi è sempre piaciuta un casino, per quanto ad alcuni paia un po' scontata. La geografia del mondo immaginato da King è ben chiara nella sua mente, forse un po' meno in quella del lettore, ma dà un tocco di esotismo alla lettura che non guasta mai. Così come sono deliziosi i frammenti di una lingua "altra" che l'autore ha disseminato nel racconto, senza mai eccedere, senza diventare pesante. Lentamente il lettore deduce il significato dei vocaboli inventati e che, proprio per la loro unicità, rivelano il proprio valore simbolico, l'importanza che rivestono all'interno della trama.

A mio parere ciò in cui King eccelle, in ogni sua opera, è proprio il racconto di una storia: non si intende qui lo stile o la costruzione della trama, quanto la narrazione di una vita, di un personaggio, di un evento. Le pagine in cui fa parlare i suoi protagonisti, facendo raccontare loro la propria storia, scorrono come fiumi impetuosi e non ci si staccherebbe mai da quelle pagine. Sarà la naturalezza con cui li fa parlare, con cui riesce a trasmettere le emozioni, le vivide immagini che sa creare... sta di fatto che ognuna di queste sezioni è una chicca e, grazie alle peregrinazioni del buon Roland e alla lunghezza dell'opera, di personaggi da incontrare ce ne sono un bel po'.

Ho fatto fatica, invece, ad affezionarmi ai protagonisti. Roland, l'ultimo cavaliere che dà il nome al primo libro della serie, è un uomo duro, freddo e determinato, volto ad un unico scopo nella vita e disposto a sacrificare qualsiasi cosa per esso: giungere alla leggendaria Torre Nera, che si erge alla fine del mondo in un campo di rose. E' un uomo ferito, che ha sofferto molto, ha rinunciato a tutto ciò che la vita gli aveva donato e che spesso gli ha comunque strappato in modo doloroso e crudele. Un uomo che porta la morte, che ha visto troppe volte la morte in faccia e che ha sepolto tutti coloro che ha amato. Difficile pensare a un personaggio più distaccato e privo di empatia. Lo capisco, certo, non poteva essere altrimenti, ma allo stesso tempo trovo quasi impossibile rivolgere ad una persona del genere il mio affetto, o almeno la mia simpatia. Non è colui in cui vorrei calarmi all'interno della storia, di cui condividere pensieri ed emozioni.
Al pistolero si aggiungono, dal secondo libro in poi ("La chiamata dei tre") Eddie Dean, Susannah e il giovane Jake. Devo essere diventata un po' dura di cuore anch'io, negli ultimi tempi, perché l'unico per cui ho sentito un po' di trasporto è l'animale domestico che quest'ultimo raccoglie strada facendo, il bimbolo Oy. Sì, decisamente mi sto anestetizzando al materiale umano...
Tra i tre Jake è quello che più naturalmente attira le simpatie: è un ragazzino, con ancora nell'animo quella freschezza tutta infantile ma il dolore nel cuore di un giovane uomo che ha già vissuto troppo.
Comunque sia e per quanto antipatie e simpatie siano prettamente personali, King li tratteggia molto bene e dà loro vite assai interessanti, per quanto a loro volta, costellate di dolore. Non si può non dire questo nel commentare questa saga: non è una lettura felice, la carica drammatica rimane alta e accompagna il lettore dall'inizio alla fine con colpi di scena anche strappa-cuore. C'è come una nube di tragedia che incombe sull'intera vicenda, dall'inizio alla fine, e per quanto i protagonisti lottino e ci siano sparuti momenti di trionfo l'atmosfera plumbea tende a tornare.

Un altro dettaglio non di poca rilevanza sono i continui rimandi che si trovano all'interno dei romanzi ad altre opere di King. Alcuni sono veri e propri spoiler e il lettore poco preparato potrebbe ritrovarsi a leggere un riassunto di poche pagine di un intero romanzo precedentemente pubblicato o riferimenti ad ambientazioni e personaggi narrati altrove. "L'ombra dello scorpione", "Insomnia", "Cuori in Atlantide" sono solo alcuni di questi. Pare che la produzione di King sia costellata di riferimenti alla saga della Torre Nera; difficile sorprendersi d'altronde, di fronte a un'opera monumentale che consta di migliaia di pagine e che ha impegnato l'autore dal 1970 al 2004. Una vita è racchiusa tra queste pagine, un diario della creatività di quest'uomo (che invero pare sconfinata). Esistono guide alla lettura della serie della Torre Nera, in cui si suggeriscono non solo riferimenti più o meno espliciti ma anche ordini di lettura e collegamenti.
Sarà perché questa storia ha accompagnato King per così tanto tempo che egli ha scelto di inserirsi tra i personaggi principali. Una cosa un po' strana, questa presenza scomoda dell'autore nei propri libri, per lo più in veste di Deus Ex Machina ma anche fulcro e colonna portante del Vettore. Insomma, si è dato un posto di rilievo, mica una macchietta, una comparsata. Personalmente non mi piacciono queste ingerenze dell'autore nella storia, che creano un collegamento alla realtà che, nel mio caso, rovinano un po' la sospensione del dubbio fondamentale per godere appieno della lettura. Allo stesso modo non apprezzo i momenti in cui la narrazione, da terza persona, si trasforma in prima/seconda persona, in cui King si rivolge direttamente ai suoi lettori e commenta, o addirittura predice, gli avvenimenti. Non accade spesso ma quando lo fa lo odio. Mi è sempre sembrata una debolezza stilistica e King ci casca in modo per me davvero fastidioso.

Insomma, il giudizio è a grandi linee positivo. Non è una serie di cui mi sia innamorata perdutamente come è successo a tanti, non mi ha avvinto irresistibilmente, ma mi ha accompagnato a lungo, mi ha intrattenuto ed emozionato. Sono felice di averla letta e sono certa che, se in futuro deciderò di rileggerla, coglierò mille particolari che mi sono sfuggiti a questa prima lettura. Sicuramente non è il primo libro che consiglierei di King ma è una tappa fondamentale per chiunque sia un suo fan.
Una critica però la devo fare, e non è all'autore o ai libri in sé, ma alla casa editrice che ne ha curato l'edizione che ho maneggiato in particolare. La Sperling e Kupfer ha avuto per anni l'esclusiva sui libri di King e credo che ci abbia fatto dei gran bei soldi. Un autore di punta, adorato da milioni di fan in tutto il mondo e che sforna in media un romanzo o una raccolta di racconti all'anno è una gallina dalle uova d'oro. Ci si aspetterebbe quindi un po' di attenzione all'edizione di quelle pubblicazioni (io mi aspetterei attenzione e serietà professionale in tutti i casi con tutte le pubblicazioni, ma questo è un altro discorso e so di perorare una causa persa...), una cura del testo che preveda, oltre ad un'ottima traduzione, una dignitosa correzione delle bozze. Accantonando la qualità della traduzione, che di ottimo non ha nulla, questi libri sono un coacervo di sviste ed errori di battitura. Punteggiatura volante, lettere scambiate, paragrafi appiccicati... Si trova veramente qualsiasi nefandezza grafica in questi volumi. Io posso capire, trascurare un paio di errori a volume, soprattutto visto il numero di pagine. Tuttavia qui siamo di fronte a una Caporetto editoriale: migliaia di errori solo nell'ultimo volume una media di uno a pagina, a volte due o tre. Errori che si sarebbero potuti evitare lanciando un miserabile correttore di Word. Uno schifo. Una vergogna pensare che quell'edizione a copertina rigida è costata all'acquirente ignaro assai più di quanto in effetti valga. Spero ardentemente che la casa editrice abbia provveduto a correggere tutto il possibile nelle edizioni seguenti.

Voglio concludere però con un ultimo messaggio tornando alla storia narrata in questi sette romanzi. Un insegnamento che nasce dalla lettura dell'ultimo tomo ma che mi ha colpito per il suo richiamo a qualcosa che ho imparato in psicologia e che temo sia una verità davvero davvero scomoda.
Ciò che ci capita, ciò che viviamo, il destino a volte sembra ripetersi, incidenti e sfortune tendono a replicarsi, le persone sbagliate continuano ad affacciarsi alla nostra vita. Noi ci arrabbiamo, piangiamo e ci lamentiamo, incolpando il cielo, il fato avverso, la vita. Ciononostante per lo più ciò che ci accade ce lo procuriamo noi. Una difficoltà non risolta continuerà a ripresentarsi nella nostra vita finché non l'avremo superata, finché non avremo risolto il nostro conflitto. Credo che questo sia l'insegnamento più importante che ci lascia la Torre Nera: se vogliamo cambiare il nostro destino siamo noi quelli che devono cambiare, in profondità. Sta a noi spezzare il circolo vizioso e regalarci un'altra vita possibile.

mercoledì 10 febbraio 2016

4. Fahrenheit 451 - Ray Bradbury

Più riguardo a Fahrenheit 451Dal mio punto di vista questo libro non è una lettura, ma un'esperienza. Una delle più stranianti e inquietanti che mi siano mai capitate, personalmente: la sensazione di leggere un libro scritto più di cinquant'anni fa ma che descrive minuziosamente il nostro presente.

Fahrenheit 451 è un grande classico, uno di quei libri che alcuni professori di buona volontà danno da leggere ai propri studenti adolescenti, per lo più con scarso successo. Sì, perché come tutte le distopie geniali, descrive una realtà così terribile che la maggior parte dei lettori "casuali" tendono a negare l'evidenza. D'altronde la negazione della realtà e la soppressione dell'evento sgradito è proprio uno dei temi affrontati dall'autore: il genere umano è formidabile quando si tratta di nascondere la testa sotto la sabbia.

Questo romanzo è così ricco di spunti di riflessione e passaggi forti che risulta davvero difficile razionalizzarli un po'. Io, come insegnante oltre che amante della cultura, non posso non sentirmi fortemente presa in causa e allarmata nel riconoscere nella società in cui vivo tante somiglianze con quella malata descritta da Bradbury. Il passaggio più forte, a mio avviso, è sempre il discorso di Beatty, il capo dei vigili del fuoco. Nel descriverci la discesa nell'inferno in cui vive il protagonista ci racconta l'abbruttimento di una società che sceglie di autodistruggersi annullando in primis la cultura, perché portatrice di pensiero. Il pensiero fa male, perché impedisce il controllo. Controllo che va a bloccare prima di tutto le emozioni, nella ricerca di una vacua felicità inesistente e irraggiungibile fatta di oggetti e non persone. Montag, il protagonista, vive in un mondo emotivamente analfabeta, sterile nel senso più profondo del termine.

Rileggere questo romanzo ha sempre l'impatto di un pugno in pancia, perché mi ricorda che le cose non migliorano, perché mi fa pensare alle parole di chi ci governa e dice che gli studi umanistici sono una perdita di tempo e di soldi, che ci sarebbe bisogno di più ingegneri e meno letterati. Mi ricorda quanti ragazzi dagli occhi spenti ho incontrato negli ultimi anni e di come, pur di sentire qualcosa, queste creature ferite e svuotate sarebbero disposte a fare qualsiasi cosa, dall'assunzione di droghe alle scommesse più crudeli a spese della propria vita e di quella dei compagni.

La soluzione dell'autore è drastica, tragica. Una fine di morte e ricostruzione da zero, come la fenice (simbolo dei vigili del fuoco) dalle proprie ceneri. Eppure mi piace pensare che ancora non sia troppo tardi. Che si possa fare qualcosa per fermare, rallentare, se non invertire la rotta. Mi piace soffermarmi non tanto sui libri parlanti dell'ultimo capitolo quanto sulla famiglia di Clarisse, la ragazza che cambia la vita di Montag così drammaticamente con il suo solo esistere. Può spegnere la tv e parlare con i nostri cari, leggerci libri l'un l'altro e discuterne così come io sto facendo in questo momento, virtualmente, con chi mi leggerà, (e come ho fatto coi miei colleghi del gruppo di lettura, con cui ho condiviso questa esperienza) avere il coraggio di uscire ad ammirare il tramonto o la danza delle foglie che in autunno cambiano colore e ricoprono le strade... può tutto questo salvarci dall'abbandono della nostra umanità in virtù di una somiglianza alle macchine da noi inventate?

Non sono una persona ottimista, ma in questo caso, stranamente, faccio uno strappo alla regola. Sarà l'amore che ho per i miei libri, dei quali non so fare a meno... Forse semplicemente mi rifiuto di contemplare la possibilità di un universo in cui io e loro non coesistiamo. Fatto sta che io, ancora, ci spero. E lotto per loro.

Postilla curiosa: Da anni non mi faccio problemi a mostrare la mia avversione per gli e-book. A me piacciono i libri di carta, quelli che si possono toccare, annusare, sottolineare, quelli che si rovinano e ingialliscono, che prendono polvere e riempiono uno spazio. Non è solo una questione estetica, anche se certamente una componente di questo tipo c'è. No. E' anche sapere con certezza che questi testi esistono e sono altro rispetto a me, che saranno lì anche quando sarò più vecchia, che potrò condividerli con amici, allievi, figli, chiunque verrà dopo di me. Nulla diverrà obsolescente, non dovrò ricomprarli, convertirli, e non sarà un cortocircuito o una caduta, o ancora un crollo del cloud di Google, a togliermeli. A toglierli alla vita. Ogni volta che compro un libro è come se gli dessi la dignità di esistere per i posteri. So che è un po' borioso da parte mia, ma è un sentimento davvero inarrestabile.
Ebbene, mi ha divertito sapere che Bradbury, fino a pochi anni prima della propria morte, ha negato il permesso alla propria casa editrice di convertire questa opera in e-book. Mi pare anche ovvio e logico: il concetto di e-book è l'esatto contrario di ciò che l'autore racconta. Sì, è vero che il libro sopravvive anche senza il cartaceo, finché qualcuno lo ricorda, finché ne esiste una versione che potrà essere ristampata, ma che impatto ha sul mondo se non può essere scambiato, sfruttato, se non è fruibile ogni volta che lo si desidera? Alla fine, comunque, ha dovuto cedere anche lui. Buon Bradbury (che doveva avere un caratterino da paura...), chissà perché hai cambiato idea...

martedì 2 febbraio 2016

Di digest e libri distillati

“Picture it. Nineteenth-century man with his horses, dogs, carts, slow motion. Then, in the twentieth century, speed up your camera. Books cut shorter. Condensations. Digests. Tabloids. Everything boils down to the gag, the snap ending.”
“Classics cut to fit fifteen-minute radio shows, then cut again to fill a two-minute book column, winding up at last as a ten- or twelve-line dictionary resume. I exaggerate, of course. The dictionaries were for reference. But many were those whose sole knowledge of Hamlet (you know the title certainly, Montag; it is probably only a faint rumour of a title to you, Mrs. Montag) whose sole knowledge, as I say, of Hamlet was a one-page digest in a book that claimed: ‘now at least you can read all the classics; keep up with your neighbours.’”

E poi la gente si chiede perchè dovrebbe leggere un libro come "Fahrenheit 451". Forse perchè così saprebbe come giudicare questo...