mercoledì 26 aprile 2017

48. Robert Luis Stevenson - Olalla

Più riguardo a OlallaNon si può chiamare "Olalla" un romanzo. Sebbene sia stato pubblicato in un volume indipendente questo è a tutti gli effetti un racconto lungo. Per questo è il genere di lettura da 3 ore: un pomeriggio al lago, complici le vacanze, e questo libricino si volatilizza. Purtroppo senza lasciare granché dietro di sé...

Stevenson è proprio lui, quello famoso per "L'isola del tesoro" e "Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde". Questo racconto fa parte del periodo inquietante e misterioso in cui lo scrittore era impegnato nell'editing del secondo romanzo citato e si sente: l'atmosfera è carica di una cupa angoscia che si respira anche nell'altra storia, ma qui ha toni più smorzati e fumosi, quasi onirici. Non è un caso dunque se Stevenson raccontò di aver sognato questa storia e di aver faticosamente cercato di riportarla sulla carta.
L'ambientazione però è del tutto diversa: siamo in Spagna, presumibilmente nei primi anni del 1800, e l'io narratore è un soldato, un ufficiale, che dopo essere stato ferito in battaglia è alla ricerca di un periodo di riposo lontano dal clima umido e uggioso della madrepatria, la Gran Bretagna appunto. Su consiglio del suo medico sceglie di andare da pensionante in una magione spersa nelle montagne, residenza di un'antica famiglia nobiliare caduta in disgrazia. La famiglia ha una sola richiesta da fare: che lui non entri in alcun modo in confidenza con i suoi componenti. E' così che l'ufficiale incontra la padrona di casa e i suoi due figli, Felipe e Olalla. Be', non esattamente in quest'ordine... Ma il fatto che Olalla dia il titolo al libro fa intuire che avrà un certo peso nella storia.

Come dicevo c'è un velo di mistero che aleggia su questa storia, ma più di un vero senso di soprannaturale mi ha fatto pensare a "Il giro di vite" di Henry James: l'idea che qualcosa di demoniaco all'opera potrebbe esserci, ma anche no; forse è tutta immaginazione, forse è la gente che viaggia con la fantasia, o invece questa famiglia maledetta qualcosa di strano e innaturale ce l'ha davvero. E' un racconto del supposto, del temuto, dell'immaginato. Forse per questo alla fine mi ha lasciato un po' di inconcluso in gola.

Non sono molte le tematiche sviluppate dall'autore. In quest'atmosfera tardo gotica trova spazio l'immancabile follia amorosa (ma sarà poi amore, una passione alimentata dalle fantasie e da un paio di incontri fortuiti e silenziosi?), ma ciò che mi ha intrigato di più è la descrizione della decadenza all'interno della famiglia nobiliare spagnola.
L'autore ancora una volta cede all'attrazione del tema del doppio, in un certo senso, anche se non lo visualizza più in due entità diverse, ma come caratteristiche unite all'interno dell'individuo. In questa famiglia da generazioni gli esponenti mantengono sembianze molto simili e assai avvenenti, ma nel frattempo la loro lucidità mentale e intelligenza è andata perduta. Tutti noi abbiamo sentito parlare di come la maggior parte delle famiglie nobiliari di tutta Europa siano piuttosto malandate geneticamente, portatrici di un sacco di malattie inasprite e sviluppate dal costante matrimonio tra consanguinei più o meno prossimi. In questo racconto però il disfacimento mentale che ci aspettiamo è controbilanciato da un fascino esteriore che invece non passa, ma rimane immutato nelle generazioni. Come se l'interiorità di queste famiglie spesso malvagie, corrotte e rovinate dalla loro stessa superbia si distingua nella vacuità del loro sguardo, mentre all'esterno tutto rimane uguale, trasferendosi di generazione in generazione quasi come un'arma, perché è a questo che serve: sedurre chi sarà così debole da farsi ammaliare e dare nuova linfa vitale alla famiglia.

La tematica è carina e poteva essere sviluppata in molti modi, sia realistici che più fantastici, ma a mio parere Stevenson qui un po' pecca. C'è una ripetitività, una pesantezza nella narrativa, i protagonisti hanno ben poco da dire e da dirsi ma lo ripetono per decine di pagine. A questo si aggiunge uno stile non proprio scorrevole, l'ambientazione difficile da inquadrare all'inizio, e la mancanza di pause di respiro (94 pagine a capitolo unico, senza separazioni interne alla narrazione: un'unica tirata senza un momento in cui infilare il segnalibro).
Insomma, tutti questi piccoli nei, a mio parere, fanno perdere un po' di attrattiva al racconto e mi inducono a non consigliarlo, a meno che non si abbia una particolare predilezione per questo autore o per le atmosfere gotiche e le situazioni inquietanti ma non chiarite.

venerdì 21 aprile 2017

47. Stephen King - L'occhio del male

Più riguardo a L'occhio del maleChi mi conosce sa che io amo molto Stephen King e la maggior parte della sua produzione. In particolare amo i romanzi usciti sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, come "L'uomo che corre" ("The Running Man") o "La lunga marcia" ("The long walk"), storie distopiche dai temi forti e assai attuali. Quindi si potrà comprendere il mio dolore nello scoprire che questo romanzo, invece, è una palla mostruosa.
"L'occhio del male", che già dal titolo promette dolori (in lingua originale il titolo è "Thinner", cioè "Più magro", che se non altro c'entra con la storia), è l'ultimo libro pubblicato da King sotto falso nome prima di essere scoperto. L'occhio a cui si fa riferimento è il malocchio, interpretato nel romanzo come una maledizione.

La storia è semplice, una trama che si poteva sviluppare con agio in un racconto di media lunghezza e che invece come romanzo fa acqua, o meglio latte alle ginocchia, da tutte le parti.
Un avvocato obeso dell'America bene investe inavvertitamente una vecchia zingara perché poco attento alla guida. La polizia locale e il giudice lo difendono, scagionandolo, perché in fondo gli zingari danno fastidio a tutti in questo romanzo. Il capo degli zingari, un vecchio dal volto sfigurato, lancia una maledizione sul protagonista: quella di dimagrire fino alla morte.
Ovviamente ci viene descritto lo stupore nella perdita di peso iniziale, l'orrore nel rendersi conto che non c'è modo di fermarla, la reazione di chi sta attorno a Billy, il protagonista. E Billy non è uno che se ne sta con le mani in mano: indaga, cerca di capire cosa sia successo, di chi sia davvero la colpa e chi siano questi maledetti zingari con qualsiasi mezzo a propria disposizione. La faccenda volgerà al cruento, senza tuttavia alcuna reale nota horror. Si tratta più di soprannaturale drammatico, un mix che può descrivere l'uso di magia nera senza toccare i mostri nell'armadio di ciascuno di noi.

C'è poco da dire su questo romanzo. Non ha una vera carica di critica sociale, dal mio punto di vista, non affronta reali problemi se non portare all'attenzione del lettore ciò che tutti sanno, e cioè che le popolazioni rom, così come tante altre minoranze, sono rifiutate dalla società e abusate da chi si sente migliore di loro da tutta l'eternità. Certo che se poi tu, scrittore, li ritrai come stregoni e assassini spietati non aiuti...
Anche lo stile è scialbo. Non ci sono passaggi davvero emozionanti o poetici, come spesso accade invece in King. La storia è scontatissima e si può prevedere fin dall'inizio come andrà a finire. Nulla mi ha sorpreso, dall'inizio alla fine.

Una curiosità: ho detto prima che questo è l'ultimo libro uscito originalmente con lo pseudonimo di Richard Bachman, prima che il collegamento con King fosse fatto da un libraio americano e la realtà svelata. Devo dire che il vecchio King non si stava impegnando così tanto a nascondersi: come succede ogni tanto nei suoi libri, perché è un narcisista dei peggiori, l'autore qui si autocita nel romanzo, o meglio Bachman cita proprio Stephen King. A Billy sembra di essere in un romanzo di Stephen King, nella fattispecie. A me questa cosa di citare se stessi fa una tristezza senza precedenti, come già era successo nella saga della Torre Nera...

Conclusione: questo romanzo mi ha delusa profondamente. Mi ha lasciata annoiata e insoddisfatta, la storia è banale e non c'è nessuno stimolo intellettivo o psicologico. Un libro da dimenticare e che consiglio a tutti gli amanti di King di abbandonare tranquillamente sullo scaffale, se non vogliono sprecare tempo prezioso.

martedì 18 aprile 2017

46. Joseph Roth - La Cripta dei Cappuccini

Joseph Roth è uno di quegli autori che non si può proprio associare a un Paese preciso, non al giorno d'oggi. Nato a Brody, piccolo paese attualmente parte dell'Ucraina, è considerato in verità uno scrittore austriaco, scrisse in tedesco, ed è connotato in particolare per la sua appartenenza al gruppo degli ebrei galiziani, una comunità piuttosto numerosa all'inizio del '900 (e rappresentata anche nel romanzo protagonista di questo post). Insomma, un uomo che si può definire solo austro-ungarico e che di quest'appartenenza fa proprio il suo marchio di fabbrica, perché è conosciuto come il narratore della decadenza e della fine dell'Impero.

"La cripta dei Cappuccini" è il secondo capitolo di una breve serie composta da due romanzi e un racconto, che hanno in comune la descrizione delle vicende della famiglia Trotta. Nella prima parte, intitolata "La marcia di Radetzky", si narra di un ramo eroico della famiglia e della sua lenta decadenza; in questo secondo capitolo, che si può leggere tranquillamente in modo indipendente, l'autore segue le vicende dell'altro ramo genealogico, ancora una volta focalizzandosi sul suo disfacimento. La Cripta dei Cappuccini che dà il titolo al romanzo esiste davvero e altro non è che la cripta della chiesa di S. Maria degli Angeli a Vienna, dove tradizionalmente venivano seppelliti i membri della famiglia imperiale. Qui si possono ancora oggi visitare le tombe di molti personaggi famosi e sebbene nel romanzo appaia solo verso la fine rappresenta per il lettore un simbolo, una metafora del tempo corrente: il vecchio sistema è morto e giace qui, sepolto, per sempre. Il mondo là fuori è cambiato e non c'è più spazio per gli imperatori. Quindi il mood del libro dovrebbe a ben vedere essere questo:


Devo dire che Roth è bravissimo a farcela sentire, quest'allegria straripante.

La vicenda parte all'inizio del XX secolo, alle porte della Prima Guerra Mondiale. Protagonista è il giovane Francesco Ferdinando Trotta, unico erede di una casata ricca ma non grandemente nobiliare, che vive tra i lussi dei caffè di Vienna e i salotti della nobiltà annoiata a cui si accompagna. Trotta non ha un'occupazione, non ha mai dovuto fare alcun lavoro né mai dovrà preoccuparsene, perché sua madre un giorno gli lascerà in eredità una notevole somma di denaro e di proprietà immobiliari amministrate dal legale di famiglia. Quindi si tiene occupato con i mezzi del tempo: le uscite con gli amici, le notti a bere nei locali fino a tardi, il collezionismo di oggetti curiosi di carattere popolare e un amore più o meno inconfessato e sicuramente superficiale per la giovane Elisabeth.

Sono giovani annoiati e senza sogni, senza ideali, quelli della decadenza asburgica, incarnazioni perfette di quel disagio chiamato spirito di fin de siècle. E come tali, allo scoppio della grande guerra, si precipitano al fronte, pronti nella loro fantasia a gesta di chissà quale eroismo. Molti di loro dal fronte non torneranno e chi invece farà ritorno a casa troverà un mondo che più non appartiene loro, cambiato per sempre.
Roth non si dilunga nella descrizione della guerra. Trotta viene fatto quasi subito prigioniero e da lì in poi se la caverà facendo amicizia con ufficiali russi che avranno per lui un occhio di riguardo. Trotta è una persona fondamentalmente innocua, dal carattere aperto e amichevole, e con tutti i suoi difetti non si sente mai superiore agli esponenti del popolo lavoratore di cui non fa parte; gli piace anzi, con quell'atteggiamento sciocco che a volte hanno i ricchi, immergersi tra loro, cercare di farseli amici e di assomigliare loro, quasi fosse un atto trasgressivo e stimolante. Potremmo anche dire che Trotta, nel male, è ben fortunato.
Fatto sta che nel tornare a Vienna, a guerra ormai finita, trova la sua vita stravolta.

Ovviamente non posso andare avanti a raccontare nei dettagli ciò che succede nel romanzo senza spoilerare completamente tutta la trama. Mi limito quindi a dire che le rinnovate condizioni e istituzioni hanno già profondamente cambiato la cultura austriaca e pretendono, da parte della vecchia classe dirigente, un mutamento profondo, nei modi e nello stile di vita; questo tuttavia non è sempre possibile. Lo si vede nella vita di tutti i giorni: non tutti sono capaci di reinventarsi e di solito è chi ha vissuto in modo più agiato a soffrire questo genere di sconvolgimenti sociali. E' senza dubbio una debolezza, una grave mancanza di carattere, ma è anche estremamente vero e umano e per questo Trotta, nel suo essere spesso irritante, mi è sembrato così reale.
Così i protagonisti si rifugiano nel ricordo di un'epoca che non c'è più, di una società utopica che rivive solo nei loro ricordi. Non che l'Austria imperiale fosse un paradiso: lungi da tanta perfezione, l'autore è ben consapevole, e ce lo dice, che si trattasse di un mondo spesso crudele, corrotto e violento, in cui trionfavano arroganza e ingiustizia sociale. Ma che conta questo, quando il proprio presente è così alieno da lasciare un uomo sperduto?

Il personaggio di Elisabeth è forse quello che meglio degli altri risalta tra le pagine, specie nell'ultima parte, e insieme a Trotta ben rappresenta il periodo storico in questione. L'amore tra Elisabeth e Trotta, semplicemente, non esiste. Non è amore questa conoscenza superficiale che sfiorisce al primo contatto, alla prima vera occasione di intimità. Ciononostante questo tipo di rapporti, evanescenti e finiti prima ancora di iniziare davvero, sono l'unico tipo di relazione che ci si possa aspettare da persone così egocentriche ma allo stesso tempo inconsapevoli, non soltanto di ciò che si è, ma persino del mondo in cui ci si muove.
Elisabeth è una donna apparentemente moderna, che nel giro dei quattro anni della guerra fiorisce, potremmo dire, in una creatura che, da donna ottocentesca, diventa indipendente e in possesso del proprio destino. Tutto ciò naturalmente è solo apparenza. Non c'è nulla in Elisabeth che sia realmente sentito: è lo specchio fedele dell'influenza di chi le sta accanto, il superficiale e sciocco entusiasmo di chi non ha idee proprie e quindi si infervora per quelle degli altri. Elisabeth la trasgressiva, come potremmo pensare, questa donna che si lascia andare a una sessualità non convenzionale e si dedica all'arte, in verità agisce a caso, seguendo di momento in momento chi più la manipola col proprio carisma. Non si scorge, in lei, nessun vero affetto, nessuna appartenenza profonda, nessun valore irrinunciabile. Non c'è nulla di cui le importi davvero, se non l'irrinunciabile follia del momento.
Ed è rappresentativa, questa Elisabeth, perché quasi tutti i giovani all'interno del romanzo, almeno nella cerchia del protagonista, sembrano agire totalmente a caso, sull'impulso del momento o della moda, ma senza seguire desideri e principi più profondi. Ecco allora la fine secolo, la crisi dei valori, la perdita delle certezze e il rifugiarsi nell'estetica, nel materiale e transitorio per trovare sollievo, per mettere a tacere il proprio stordimento, per non sentire che c'è un vuoto; e tuttavia quel buco non si può colmare così, con la leggerezza e l'indifferenza.

Questo è il momento in cui questo romanzo ha iniziato a diventare doloroso, per me. Perché tra le pagine di Roth ho letto un mondo che mi è fin troppo familiare, un disagio sociale che rileggo ogni giorno sui volti dei miei allievi a scuola, sui ventenni che mi capita di frequentare. A cento anni di distanza la fine del secolo ha colpito ancora e con violenza la nostra società. Si sono salvati in pochi, dalla mia età in giù, e leggendo queste pagine ho ritrovato tutte le contraddizioni e le pochezze della nostra epoca, tutta la sofferenza di una generazione X, sbandata da una società che ha distrutto il vecchio senza saper ricostruire il nuovo. Toccherà a loro e a noi creare un mondo più moderno, più giusto. Il problema è che per loro, quelli dell'inizio '900, la spinta al cambiamento è stata una guerra mondiale che ha fatto 6 milioni di morti e decine di milioni di feriti e invalidi. E nemmeno questo è bastato, visto che poi ci sono stati i totalitarismi e la Seconda Guerra Mondiale. Insomma, se diamo ragione a Vico e crediamo nei corsi e ricorsi storici (e io un po' la sposo, questa teoria) allora il peggio deve ancora arrivare...

Sono più fortunati i vecchi, allora, in questo mondo a gambe all'aria. La madre di Trotta, donna tutta d'un pezzo, è l'incarnazione dei valori del passato e rimane, fino alla fine, l'ultimo baluardo del vecchio regime. L'autore la tratta con una dolcezza, una tenerezza che rivelano un occhio di riguardo. Pur avendo fatto molti errori, pur avendo attivamente mandato in malora la famiglia, non le rimprovera mai nulla davvero, perché la signora è sola, è anziana, non capisce la modernità che avanza e, alla fine dei suoi giorni, non è nemmeno del tutto in sé.
Raramente mi è capitato di leggere una descrizione della vecchiaia più dolce, un occhio così ottimista su un periodo della vita che è di solito guardato con odio, tristezza, rimpianto. Bellissimo il modo in cui invece ne parla Roth, come riesce a trovare poesia e sollievo in eventi dolorosi come il venir meno delle facoltà mentali.

Com'è caritatevole la natura! I malanni che essa regala alla vecchiaia sono una grazia. Oblio ci regala, sordità e occhi deboli, quando si diventa vecchi; un poco di confusione anche, poco prima della morte. Le ombre da cui questa si fa precedere sono fresche e caritatevoli.

La storia termina con l'arrivo dei nazisti in Austria, l'occupazione e la fuga degli ebrei da Vienna. Questo evento è la vera fine dello splendore passato: gli ebrei a Vienna e in generale nell'Impero erano stati una parte fondante della società; con loro se ne vanno non soltanto vetturini e ambulanti, ma anche alcuni dei più ricchi abitanti, i gestori di alcuni dei locali più alla moda della città e persino molti nobili. Non solo: con questo atto di invasione l'Austria perde la propria indipendenza come nazione. Quindi nel giro di vent'anni Trotta si ritrova a vivere la distruzione di un impero fino al proprio totale annullamento.
Sospetto che avrebbe desiderato quell'oblio riservato ai vecchi, quello che aveva reso gli ultimi anni della madre più dolci. Invece Trotta è, nonostante la propria inutilità, ancora giovane, nel pieno anzi delle forze, e gli tocca sopravvivere. Roth crea una forte assonanza tra lo stato d'animo del protagonista e i lampioni di Vienna in una delle descrizioni finali del libro.

...i lampioni intristivano, stanchi del vano risplendere. Agognavano il mattino indolente e il loro stesso estinguersi. Sì, erano sempre stanchi, i lampioni sfiniti dalla veglia, che volevano il mattino per potersi addormentare.

E' questa la tragedia dell'uomo nella generazione X, il non trovare un posto ma non potersene nemmeno andare. Allora che fa? Si aggrappa al passato, al poco che gli resta, e va a rifugiarsi in un luogo amato, che per lui rappresenta la sicurezza perduta. La tomba dell'imperatore.


La storia si chiude su questo momento storico, così come la vita dell'autore, morto soltanto un anno dopo aver pubblicato questo romanzo. Un uomo a sua volta sofferente, alcolizzato, afflitto da problematiche psichiche (sicuramente era un impostore e un mitomane) e sposato con una donna malata di mente. C'è molto di Roth nelle sue storie, forse più di quanto vorremmo conoscere, perché Trotta o gli altri protagonisti delle sue storie non sono certo gente a cui vorremmo accompagnarci; eppure ci parlano perfettamente di un tempo che è passato ma mai quanto ora vicino.

Personalmente consiglio la lettura di questo romanzo: è breve, lo stile è semplice e facile da seguire, un libro che scorre come acqua e lascia incollata dentro una patina di amarezza. D'altronde mica si legge solo per trastullarsi...

giovedì 13 aprile 2017

45. Wei Wei - La ragazza che leggeva il francese

Più riguardo a La ragazza che leggeva il franceseConcludo la mia piccola incursione in terra cinese con un romanzo curioso, che con la sua leggerezza di stile mi ha appassionato e mi ha fatto scoprire un altro pezzettino di storia cinese.

Per una persona che ha studiato lingue (non solo europee) e che ha approfondito filologia e glottologia in tesi, non solo, per una persona che di mestiere fa l'insegnante di lingua straniera, per quanto essa sia il nazional-popolare inglese, la lettura di questo romanzo è, a mio avviso, un viaggio affascinante. Abituati a vedere le lingue asiatiche come estranee, aliene alla nostra struttura linguistica, e soprattutto difficilissime da apprendere, è interessante osservare l'altra faccia della medaglia: una lingua europea, per di più romanza, come il francese descritta dalla prospettiva di una ragazza cinese che l'ha dovuta imparare.

"La ragazza che leggeva il francese" è il romanzo più o meno autobiografico della scrittrice di origine cinese Wei Wei. Nata nel 1957 nel sud della Cina, vive oggi in Inghilterra dopo aver trascorso alcuni anni in Francia. E ad averla portata in Europa è una sventura, da un certo punto di vista: l'essere stata scelta, contro la sua naturale inclinazione e ambizione, per studiare all'università lingua francese e diventare un'interprete.

Il primo tema approfondito in questa storia è, senza ombra di dubbio, il libero arbitrio, la libertà di scelta e la negazione della stessa all'interno della cultura cinese, almeno per quanto riguarda gli anni '60/'70. Durante la Rivoluzione culturale, periodo in cui la giovane Wei Wei frequenta la scuola, non era dato all'individuo di poter scegliere la propria strada. L'accesso all'università era fortemente limitato, le selezioni durissime e spesso corrotte, e il giovane studente veniva spesso rifiutato da un corso di studi senza sapere perché, o dirottato in seguito verso un'altra disciplina totalmente differente.
E' ciò che accade a Wei Wei, che partita dal sogno di diventare medico, è costretta ad abbandonare il proprio progetto a causa del passato non del tutto cristallino della sua famiglia (anche il minimo problema all'interno del partito era un precedente insormontabile che avrebbe infangato la reputazione dell'intera famiglia per generazioni) e solo grazie alla sua appartenenza ad una delle minoranze etniche cinesi viene poi ammessa ai corsi universitari a loro riservati, per studiare però lingua francese. Wei Wei è disperata di fronte a questo futuro: a lei le lingue non interessano, non conosce nulla né di francese né della Francia e ha speso anni a prepararsi a tutt'altra professione. In Cina però non c'è spazio per la volontà, i desideri del singolo, ma solo per ciò che serve al Paese. Mi fa sempre pensare a un formicaio o ad un alveare, questa Cina, in cui il comunismo ha eliminato il cittadino in nome di una grandezza e di un progresso globale di cui poi, quel singolo cittadino, non ha goduto mai (e nemmeno i suoi discendenti, spesso e volentieri).
Noi che in Europa abbiamo esaltato tanto la diversità, le inclinazioni personali, l'unicità (spesso fino all'esagerazione) non possiamo nemmeno immaginare un Paese così. E non si tratta solo dell'ambito lavorativo o di studio: anche la vita privata, amorosa, era all'epoca regolata con la stessa concezione di dovere imposto. Sottolineo l'uso del passato perché non ho idea di come sia la situazione corrente e non mi azzarderei mai a giudicare un Paese dalla sua cultura di 50 anni fa. Sono speranzosa che la situazione sia un po' cambiata, almeno dal punto di vista dei legami personali...

Comunque sia la protagonista di questa storia non molla mai, non si lascia mai vincere dalla delusione o dalle avversità. Il sistema e la famiglia la avversano, in modo e in ambiti diversi, ma lei trova sempre una maniera di andare avanti, ricaricarsi, scovare nuove ragioni per lottare. E' una ribelle dentro, Wei Wei, e forse lo studio del francese faceva davvero per lei, perché si sa che la storia francese è una di rivoluzioni... Sarà la letteratura francese (notare bene, quasi introvabile in Cina, perché la lettura della narrativa straniera non era incoraggiata affatto durante il Comunismo di Mao) ad aprirle le porte di un altro mondo, di possibilità diverse, e a farle trovare un senso nello studio della lingua francese, che inizialmente non apprezza per nulla.

Questo processo di apertura all'Occidente e, di conseguenza, la presa di coscienza della vastità e diversità del mondo, è descritto con una bellissima metafora dalla scrittrice. Non posso non condividerla qui sotto...

Una ranocchia nasce nelloscurità di un pozzo profondo. Vi passa linfanzia e ladolescenza. Non esce mai perché lidea di avventurarsi fuori non le passa mai per la mente. Contempla tutti i giorni il cielo dal fondo del suo nascondiglio e crede non sia altro che un piccolo disco talvolta bianco, talvolta grigio, talvolta azzurro, talvolta velato, talvolta luminoso...
Poi, un bel pomeriggio destate, un uccellino viene a posarsi sul bordo del pozzo:
Posso bere un po dacqua? Muoio di sete.
La ranocchia annuisce:
Bevi quanto vuoi.
Poi gli domanda con curiosità:
Da dove vieni?
Dal cielo. Ho volato più di duecento li.
La ranocchia strabuzza gli occhi stupita:
Duecento li? Ma esageri! Il cielo non è più grande dellentrata del mio pozzo, lo vedo tutti i giorni da qui.
Luccellino scoppia a ridere:
Esci e guarda. Io devo proseguire il mio viaggio. Arrivederci, e grazie dellacqua!
Poi vola via.
La ranocchia esita un istante, poi balza su una piccola felce che spunta da una fessura vicino al bordo del pozzo. Allunga il collo e osa timidamente mettere fuori la testa famelica: ma... ma il cielo è così GRANDE!

Forse la cosa che mi ha colpito davvero più di tutto il resto è l'incredibile forza di questa ragazza, la determinazione, la volontà di non arrendersi mai e di continuare a lottare per ciò che sente davvero. Non tutti abbiamo questa forza, come ci racconta anche il romanzo, ma tutti dovremmo ambire a lottare per essere liberi.

Inoltre non si può ignorare il messaggio d'amore per i libri: è la lettura dei classici francesi a far rinascere in Wei Wei la voglia di esplorare il mondo e opporsi alla castrazione psicologica a cui la sua società è soggetta. Il potere della letteratura è una verità ignorata solo dalla popolazione occidentale del giorno d'oggi. In passato, e in molti Paesi ancora oggi, chi deteneva il potere sapeva molto bene che certi libri sono dinamite e rischiano di far esplodere gli animi: per questo esistevano le liste di libri proibiti, per questo ancora oggi opera la censura. Trovo sempre incredibile quanta poca rilevanza viene data alla lettura dalla gente comune, quanto la trovino semplicemente noiosa e la evitino con cura. E pensare che su una persona può operare un cambiamento così grande! Io i libri li amo, si sa, è una cosa viscerale, ma non potrei mai farne a meno. La passione per la lettura dei classici della protagonista mi ha fatto sentire ancora più forte il valore della mia piccola collezione di libri casalinga.

Una nota ora dal profondo del mio animo di prof: ma è mai possibile che questa ragazza, madrelingua cinese, abbia avuto la forza e la costanza di imparare il francese mettendoci anima e corpo, leggendo interi romanzi con un dizionario da una parte e un quaderno dall'altra per appuntarsi tutto ciò che imparava, mentre io a scuola non riesco nemmeno a far leggere ai miei allievi due paginette in inglese corredate da appunti e didascalie? Da questo punto di vista la lettura è stata frustrante. Mi ha ricordato quanta fatica, anche fisica, imponesse lo studio fino a qualche anno fa, il lavoro di ricerca dei materiali, sempre così difficili da reperire, le ore passate a rimuginare sui libri e la soddisfazione del traguardo raggiunto quando si riusciva a cavarne un ragnetto. Oggi sono davvero pochi gli studenti disposti a tanto carico di lavoro e mi amareggia un po' che anche la mia materia, l'inglese appunto, abbia così poca presa sui ragazzi. Eppure l'inglese è forse quella lingua che non solo ti apre le porte del mondo, ma ti mette proprio le ali! Invece, quando chiedo ai ragazzi perché l'inglese è importante, mi sento dire cose tipo "è obbligatorio" o "a me non interessa, tanto non vado all'estero in vacanza". Forse fa sentire più sicuri chiudersi nel proprio piccolo mondo, dove tutto è conosciuto e familiare, anche ciò che non ci piace. Lo scontro tra culture è sempre doloroso e un giorno dovrò accettare che non tutti hanno voglia di misurarcisi.

Il romanzo si conclude con un finale un po' alla francese, sintomo che l'autrice ha ben interiorizzato la cultura francese... :)
In verità ho scoperto che ci sono altri romanzi semi-autobiografici di Wei Wei e mi piacerebbe in futuro recuperarli e scoprire com'è andata avanti la sua storia, come c'è andata a finire in Francia. Sicuramente è un romanzo che per il momento consiglio a chi voglia leggere qualcosa di facile, non troppo drammatico e ciononostante caratteristico del periodo post-Rivoluzione Culturale cinese.

P.S.: Il titolo originale di questo romanzo è "Una ragazza Zhuang" e si riferisce all'etnia della protagonista, appunto Zhuang, cioè una minoranza all'interno della Cina (che è a maggioranza Han). Se a qualcuno venisse la scimmia di dare un'occhiata a vestiti tipici e nomi delle altre minoranze, qui ce ne sono un po'. Buon divertimento!

Ragazza Zhuang in costume tradizionale