venerdì 28 luglio 2017

60. Walter Siti - Bruciare tutto

Più riguardo a Bruciare tuttoDi questo romanzo si è tanto parlato, perché il tema - scabroso - ha infiammato la folla. Inutile girarci attorno, perché ormai lo sanno tutti: per quanto l'autore, Walter Siti, cerchi di nascondere questo dettaglio fino a circa un terzo del romanzo, il protagonista, don Leo, è un prete pedofilo. Quindi si parla di pedofilia... ma non solo.
Certo è che scrivere un romanzo del genere ha destato qualche sospetto e molte critiche. La letteratura può davvero parlare di tutto? Non ci sono degli argomenti tabù che è meglio non affrontare? Non si può mettere un limite a ciò che viene raccontato? La risposta scaturita dal dibattito è, ovviamente, no: la letteratura non ha limiti, può dire tutto ciò che vuole e raccontare qualsiasi cosa, anche le più perverse e dolorose.

Io credo che il grande scandalo sia nato, nella maggior parte delle persone, dal fastidio di sentirsi una pelle sporca addosso. Cerco di spiegarmi meglio. Walter Siti ci racconta la storia di questo giovane prete, poco più che trentenne, un uomo profondamente caritatevole, che si impone quotidianamente sofferenze e deprivazioni e che prega fervidamente, parlando con dio. Si percepisce chiaramente che quest'uomo è tormentato, che qualcosa lo rode e che per questo cerca quasi di ripagare l'umanità con la propria dedizione. La narrazione salta tra i protagonisti, soprattutto nell'ultima parte, ma per i primi capitoli è incentrata su di lui, ce ne mostra i pensieri, i momenti di grande solitudine, i timori e le insicurezze... Insomma, è difficile non provare un po' di empatia per questo giovane, se si legge con trasporto. Poi, al capitolo 3, sgancia la bomba: BUM, pedofilo. E il lettore si sente quasi colpevole, perché ha empatizzato con un uomo perverso, malato, che fa del male ai bambini o almeno sogna di farlo, e ci si sente un po' sporchi davvero. Come se solo intenerendosi per lui ci si fosse mostrati compiacenti, complici. Questo però è anche la forza del romanzo, da cui non si può sfuggire, che ci costringe a confrontarci con tematiche scomode che rifuggiremmo volentieri.

Non è l'unica tematica affrontata dall'autore in questo romanzo. Si parla molto di immigrazione e delle difficoltà di integrazione, del confronto tra Islam e Cristianesimo, di violenza domestica, del rapporto tra omosessualità e Chiesa. E poi della vita dei preti, uomini come gli altri, con le loro idiosincrasie e difficoltà ma profondamente soli, che finiscono per cercare conforto in ciò che non dovrebbero avere: le braccia di una donna, un bicchiere di alcool, la pornografia. E' un libro che scopre molti nervi, che mette molta, forse troppa carne al fuoco: sì, anche troppa, perché nel sovrapporsi di tematiche così pesanti si genera un turbinio caotico (ma non è forse così la vita?) che, nel mio caso, ha finito un po' per anestetizzarmi. E quindi ho iniziato a non dispiacermi più tanto per i dolori dei vari protagonisti e col passare delle pagine mi sono un po' annoiata anche dello struggimento di padre Leo.

Questo è il primo libro di Walter Siti che leggo e non so se sia il suo modo di scrivere, ma non è un autore facile. Attenzione, con ciò non intendo né noioso né ermetico, ma complesso. Siti è un uomo colto e non manca di farcelo notare, con citazioni e riferimenti spesso, ma non sempre, spiegati in nota. Usa una lingua sincretica, che mischia italiano e inglese, ricreando quell'Italenglish tanto in voga nella Milano bene che fa da protagonista alla storia, ma inserendo anche frasi e commenti in dialetto milanese (che spero i non avvezzi possano comprendere). Inoltre padre Leo si rivela un uomo estremamente contorto nella forma mentis, oltre che nella sessualità, e le sue riflessioni, i suoi pensieri e il filo dei suoi ragionamenti è difficile da seguire. Insomma, bisogna aver voglia di leggerlo, 'sto romanzo, perché è tutt'altro che una passeggiata.

Se c'è una cosa che mi ha lasciata abbastanza indifferente e perplessa è proprio il finale. Chi si aspetterebbe una bella morale rimarrà deluso: sembra che il messaggio finale sia "Se il destino ci mette lo zampino anche resistere alla pedofilia può distruggere la vita di un bambino". Vabbè, diciamo che forse i problemi del bambino in questione erano altri, a cui non serviva la ciliegina della pedofilia. Ma non dico altro per non spoilerare.

Nel complesso è un romanzo interessante, che inizia in sordina ma cresce di tensione col passare dei capitoli, ma non è riuscito mai a catturarmi del tutto. Racconta una serie di drammi complessi ma fallisce un po' nell'approfondimento, rimane tutto un po' in superficie e io ho sentito un senso di incompletezza nell'arrivare in fondo. Inoltre il protagonista, con l'avanzare della storia, diventa sempre più farneticante, per cui alla fine non vedevo l'ora di mettere un punto alla storia. Il problema forse, nel suo caso, non era la pedofilia in se stessa, ma proprio un disturbo mentale grosso come un tir. Non posso dire che il romanzo non sia piacevole, perché l'ho letto volentieri e non mi ha propriamente deluso, ma non è entusiasmante, non mi ha aperto grandi finestre mentali e non mi ha lasciato granché. L'ho anche trovato un po' dispersivo, con troppi personaggi buttati nel calderone che poco contribuiscono alla trama e che creano per lo più confusione.
Assolutamente sconsigliato a chi è sensibile al tema della pedofilia e a chi si impressiona, soprattutto chi ha bambini piccoli: qualche descrizione c'è e potrebbe turbare. Per tutti gli altri una lettura che può essere interessante ma non certo un capolavoro. Discreto.

lunedì 17 luglio 2017

59. Antonia Arslan - La Masseria delle Allodole

Più riguardo a La masseria delle allodoleDopo un turco che racconta l'Italia, ho pensato di leggere il libro di una donna italiana che squarcia un velo sulle atrocità avvenute in Turchia durante la Prima Guerra Mondiale. "La Masseria delle Allodole" è un romanzo autobiografico di Antonia Arslan pubblicato nel 2004, che racconta il genocidio degli Armeni del 1915. Possiamo definire questo romanzo autobiografico nonostante la scrittrice non fosse nemmeno nata all'epoca, perché questa è la storia della famiglia Arslanian, delle sue origini, di suo nonno Yerwant che si salvò soltanto perché tanti anni prima aveva trovato una nuova casa in Italia, a Padova.

Quello del genocidio armeno è un tema molto discusso, poiché nonostante le testimonianze (poche, è vero, perché quando i sopravvissuti sono pochi è difficile trovare racconti di prima mano, e il regime ha agito con accuratezza nel tappare la bocca a coloro che mostrarono compassione per il popolo armeno all'indomani della guerra) e l'esistenza persino di fotografie rubate da coraggiosi giornalisti europei, il negazionismo è forte a livello storico e politico. La Turchia ha addirittura legiferato in tal senso e ad oggi è illegale utilizzare il termino "genocidio" in riferimento agli Armeni. Alcuni storici cavillano sulla definizione di genocidio e sulle intenzioni più o meno manifeste del governo turco dell'epoca. Tutto molto bello e sono certa di grande valore filologico, ma la realtà rimane la stessa: nel 1915, nel giro di pochi mesi, la popolazione armena residente in Turchia fu brutalmente attaccata. I maschi adulti furono eliminati subito, mentre le donne e i bambini furono costretti a mettersi in viaggio verso i confini dell'Impero Ottomano, soprattutto verso sud, dove si trova la Siria. Coloro che sopravvissero alla fatica e alle malattie, alle violenze e alle esecuzioni sommarie, alla fame e alla sete del viaggio attraverso il deserto, furono infine giustiziati e i loro corpi abbandonati. E' la storia di uno sterminio vero e proprio, che ha portato alla morte di migliaia, forse milioni di uomini, donne e bambini.
Non è chiaro il motivo per cui l'impero turco, nel bel mezzo di una guerra mondiale, si sia messo a massacrare parte della popolazione; ci sono molte teorie in merito, opinioni discordanti. Sicuramente gli Armeni erano cristiani in un territorio a maggioranza turca e quindi musulmana, che da qualche tempo covava il sogno di un grande stato nazionalista di cui gli Armeni non potevano essere parte integrante. Sicuramente la Turchia temeva rivoluzioni interne appoggiate dalla Russia, all'epoca avversaria in guerra, e gli Armeni avrebbero potuto essere la miccia di una guerra civile. Sicuramente tra gli Armeni c'erano famiglie ricche e rispettate, i cui beni furono incamerati dallo stato e ridistribuiti tra i cittadini turchi e curdi, con grande guadagno del governo. Sicuramente gli Armeni erano un bersaglio già noto all'Impero Ottomano, visti i precedenti dei massacri hamidiani, ma non l'unica spina nel fianco, visto che dopo di loro fu il turno di Assiri e Greci. Tutto questo e molto altro è stato negli anni valutato e documentato e si possono trovare molti articoli istruttivi sul web, ad esempio questo.
Forse chi si avvicina a questo romanzo ha l'idea di farsi una cultura proprio su questa tragedia storica e si aspetta di trovare dissertazioni sulle motivazioni storiche e le ricadute culturali e sociali dell'accaduto. Per questo credo che alcuni rimangano delusi, perché ad Antonia Arslan tutto questo interessa davvero poco. Ciò che conta, per l'autrice, è ricostruire la storia della propria famiglia così com'è, senza aggiungere lazzi e approfondimenti, senza renderla l'esperienza universale di un popolo, ma anzi focalizzando la narrazione solo ed esclusivamente su di loro, gli Arslanian.

Farò riferimento a qualche critica letta in giro per il web volta a questo libro.
C'è chi ha trovato lo stile dell'autrice povero, asettico, pieno di pecche stilistiche. A me lo stile narrativo di questo romanzo invece è piaciuto molto, l'ho trovato particolare ed evocativo nel suo essere asciutto, stringato. D'altronde non penso che una scrittura ampollosa o frizzante sarebbe stata adatta a raccontare una storia come questa. Mi spiace per coloro che hanno trovato questo libro noioso e pesante; per me l'esperienza è stata diametralmente opposta.
Un'altra critica rivolta all'autrice è la mancanza di suspense. La Arslan ha, come tratto caratteristico del suo narrare, l'abitudine ad anticipare ciò che accadrà, accennando con mezze parole alla fine di ciascun personaggio della storia. Per me questo è stato uno dei motori del romanzo: sapevo che sarebbe finito male (in verità, non tanto male, ma il lieto fine è un'altra cosa...), sapevo di dovermi aspettare morte e devastazione da un momento all'altro, l'autrice me l'aveva anticipato...ma ad ogni pagina che passava senza che la tragedia si compiesse la mia ansia cresceva. Leggevo con l'angoscia di sapere come e perché si sarebbe arrivati al peggio, ma con quel timore con cui si guarda un horror che fa paura, coprendosi il viso nelle scene più macabre. Ancora una volta potrei sbagliarmi, ma dubito che la scrittrice volesse creare un thriller o una storia di avventura carica di dramma e mistero. La verità, la vita, è quella che è e non ha bisogno di essere trasformata in un pappone adrenalinico.
E' importante, secondo me, che il lettore si disponga a leggere questo libro con in mente ben chiaro l'intento dell'autrice. Non credo che Primo Levi abbia scritto "Se questo è un uomo" con l'intento di intrattenere... Lo stesso vale per "La Masseria delle Allodole".

La storia inizia in un paesino non meglio definito della Turchia, nell'agosto del 1914. La famiglia Arslanian è una famiglia agiata e florida di Armeni, che si stringono attorno al patriarca Hamparzum, vecchio e ormai morente. Dopo la sua dipartita sarà Sempad, suo figlio, a prendere le redini della famiglia. Non è il primogenito, ma suo fratello maggiore Yerwant vive in Italia da quando aveva 13 anni: è un medico affermato, ha sposato un'italiana con cui ha creato una famiglia numerosa e non ha nessun motivo per tornare in patria. Attorno a Sempad si stringe la cerchia delle donne: la matrigna ormai anziana, le sorelle minori Azniv e Veron, la bella moglie Shushanig e i tanti figli. Vivono in pace con tutti, lavorando onestamente, e l'orgoglio di famiglia è una casa di campagna che Sempad non vede l'ora di rimettere in sesto, come una vera residenza moderna e occidentale: la Masseria delle Allodole.
Da quei giorni di fine estate inizia il conto alla rovescia che porterà alla distruzione della famiglia e alla morte della maggior parte dei suoi membri. Antonia Arslan segue le vicende di ciascuno dei personaggi senza mai approfondire troppo, scivolando costantemente dall'uno all'altro, cercando di donare così una visione d'insieme chiara ma mai troppo personalizzata. E' il calore della cerchia familiare e il dolore della separazione, che l'autrice vuole farci sentire, la perdita della casa e dell'amore, delle proprie radici. Potrebbe insistere su un solo personaggio, la bella Azniv ad esempio, giovane donna armena volitiva e indipendente, che non sa se la sua infatuazione per un soldato turco è vero amore. Tuttavia non lo fa, perché il fine ultimo non è l'empatia con una sola figura, ma con l'intero gruppo.
Nel corso del romanzo molti moriranno di morti orribili e violente. Non è un libro facile, da leggere per passare il tempo. E' un libro che scava, che lascia un segno e porta a riflettere. Però c'è speranza.
La speranza dei bambini che riusciranno ad arrivare in Italia e a sopravvivere. La speranza dell'aiuto inaspettato che viene dall'esterno, dai turchi che non riescono a nascondere la testa sotto la sabbia o che si pentono di averlo fatto, dai greci che sanno di avere i giorni contati, o semplicemente da chi ama i soldi più del sangue. E' un romanzo duro ma non disperato. In fondo Antonia è esistita e ha avuto la voce per raccontare il passato; di questa infusione di ottimismo per il futuro ne sentiamo tutti il bisogno.

Esiste un film tratto da questo libro, di produzione italiana, con lo stesso titolo. L'ho guardato appena finito il romanzo e, ahimè, non mi ha soddisfatto per nulla. E' difficile rendere sullo schermo una storia così dolorosa e il taglio cinematografico ne edulcora sempre qualche aspetto, rendendola meno incisiva, meno struggente. Mi dicono che tutta quella violenza non avrebbe funzionato in un film, che si trova soltanto in produzioni splatter horror. Peccato che la realtà in questo caso fosse proprio horror.
Esiste anche un seguito, intitolato "La strada di Smirne", che segue i protagonisti sopravvissuti durante la conclusione del lungo viaggio per la salvezza e racconta poi le stragi dell'incendio di Smirne del 1922, ad opera di Mustafa Kemal Atatürk. Non ce l'ho, non l'ho letto e non ne ho sentito parlare altrettanto bene, quindi non credo lo leggerò, ma sarò ben felice di sentirne qualche recensione.

Quando ho messo Italia e Turchia come Paesi di origine di questo romanzo mi sono sentita un po' in colpa. Per un po' mi sono chiesta se non avrei fatto meglio ad inserire Armenia al posto di Turchia. L'Armenia però qui non c'entra niente, perché gli efferati massacri di cui ci parla "La Masseria delle Allodole" sono avvenuti in territorio turco e fanno parte della storia di quel Paese, che a loro piaccia oppure no.
Questo romanzo andrebbe letto, non per le incredibili doti letterarie di Antonia Arslan né per passare qualche ora emozionante, ma perché la storia si ripete ancora e ancora, l'oggi è figlio di quel passato prossimo e certi avvenimenti non possono e non devono essere negati. Il genocidio armeno, la morte di più di un milione di persone, non va dimenticato, ma trasmesso, insegnato ai nostri figli, ricordato sui banchi di scuola tra le grandi tragedie del XX secolo. Leggiamo libri come questo, ogni tanto. Rimaniamo umani.

mercoledì 12 luglio 2017

58. Sei la mia vita - Ferzan Özpetek


E' solo quando riesci a mettere radici in un luogo che puoi davvero andare lontano. Perché sapere da dove vieni ti aiuta a tenere a mente chi sei, ovunque ti trovi.

Come definire questo libro? Un'autobiografia romanzata? Un romanzo con forti componenti di vita reale? E poi, possiamo davvero definire questo lungo monologo, questa narrazione in prima persona dedicata alle orecchie senza nome dell'amore dell'autore, un romanzo?

Ho comprato questo libro in seguito ad una recensione positiva trovata su Facebook. Sì, probabilmente non la fonte più affidabile del mondo, ma quale recensione lo è, dal momento che ognuno di noi ha gusti e necessità diverse? In verità quella recensione non ha fatto altro che accendere la mia curiosità: non avevo mai sentito parlare di questo libro e mi ha subito spinto a fare qualche indagine. Conoscevo Özpetek come regista, naturalmente, e sapevo che aveva pubblicato un primo libro, "Rosso Istanbul", da cui aveva poi tratto un film. Questo me l'ero perso.

Le prime righe della presentazione mi hanno convinto. Özpetek è abbastanza famoso anche per le proprie tematiche LGBT, che ha avuto il coraggio di esporre sul grande schermo italiano quando ancora l'Italia non sapeva nemmeno cosa fosse un Gay Pride, quasi. Questo libro, "Sei la mia vita", si riallaccia a queste tematiche. Niente di spinto né di erotico in senso stretto, anzi; l'autore è estremamente delicato nell'affrontare il tema dell'amore omosessuale e non, ma il protagonista ama un uomo, e questo è un dato di fatto. Uomo avvisato, mezzo salvato: chi non gradisce eviti di leggerlo, prego!

Come dicevo, non si può dire che questo libro sia un romanzo, perché tre quarti delle cose raccontate vengono dirette dirette dalla vita del regista, trasformandolo praticamente in un'autobiografia. E il quarto che avanza? Ecco, è quello che mi ha spiazzato. Perché in mezzo a tutta questa vita vissuta Özpetek ci ha infilato qualcosa che invece non c'entra niente, che è totalmente inventato e che conduce al finale del libro. Quindi come andrebbe considerato?
Questo libro mi ha destabilizzato davvero. Ho avuto un momento di crisi iniziale, quando mi sono resa conto che non stavo leggendo un romanzo, ma la vita dell'autore stesso. Ho dovuto reimpostare le mie antennine letterarie, perché leggere una storia vera, intima, non è come sognare o immergersi nell'inventato, nel frutto di una fantasia. E' più delicata, la realtà, ha diritto a un maggior rispetto e fa anche più male. Mi sono dunque avventurata nella vita del regista con occhi nuovi e ciò che ho visto mi è piaciuto, mi ha divertito, mi ha emozionato...finché non ho capito che il personaggio dell'uomo amato era inventato. Questo mi ha fatto un po' crollare il trasporto e la voglia di continuare a leggere.

Torniamo un attimo indietro, però, alla storia. Si comincia in medias res, con il protagonista e narratore, un regista di successo di origini turche ma ormai residente in modo stabile in Italia, alla guida di un'auto diretta chissà dove, tra le montagne. Al suo fianco il compagno amato, colui a cui è dedicato tutto il libro. E' per lui che il regista, mentre guida, racconta la storia della propria vita in Italia, per dirgli attraverso lunghe catene di ricordi più o meno legati alla loro storia d'amore "Tu sei la mia vita".
La scusa è un po' farlocca, si vede subito. Özpetek voleva narrarci a modo suo gli anni '70 e '80 a Roma, la comunità omosessuale dell'epoca, le esperienze e i cambiamenti, le piccole tragedie personali e le grandi soddisfazioni. Aveva bisogno di una scusa per farlo e sceglie questa modalità monologo/lettera aperta che a tratti è un po' pesante e forzata, ma lo stile agile dell'autore (dubito che il libro sia tutta farina del sacco di Özpetek, mi pare scriva troppo bene in italiano...) aiuta a dimenticare la cornice e a godere delle singole scene, come degli episodi di una fiction ambientata in via Ostiense a Roma.

Io non so molto di Özpetek e della sua vita, non mi sono mai interessata ai suoi gusti, alle sue fonti di ispirazione. Ciononostante chiunque legga questo libro non potrà più avere alcun dubbio: Özpetek scrive e racconta sempre e solo se stesso. Cambia i nomi, qualche situazione, rimescola gli avvenimenti, ma quella che ricrea con i suoi film è la storia della sua vita. Leggere la prima parte di "Sei la mia vita" è immergersi ne "Le fate ignoranti": si riconosce il condominio, il gasometro che contraddistingue il quartiere, la terrazza su cui pranzare la domenica e l'appartamento col soppalco. Ma sono tante le storie che l'autore ripercorre tra le pagine di questo libro e moltissime sono conosciute, familiari, perché Özpetek le ha già raccontate sullo schermo. Una delle critiche ricorrenti che ho visto fare a questo libro è proprio la banalità, l'effetto di trito e ritrito, la sensazione che Özpetek non abbia nulla di nuovo da dire e continui a mungere la stessa vacca. Non dico che non sia vero, ma a me ha fatto piacere riconoscere i posti e i personaggi che ho conosciuto sul piccolo e grande schermo nella narrazione, questa volta nella loro vera dimensione, cioè di persone e luoghi reali (?). Piuttosto si potrebbe dire che è banale nei film, visto che pesca a piene mani dal proprio vissuto, ma in un libro semi-autobiografico quella è semplicemente la verità...

E così torniamo al punto dolente: la storia d'amore con finale a sorpresa (che poi tanto a sorpresa non è...). Il libro, come dicevo, ha dal mio punto di vista un valore, perlomeno affettivo, se racconta l'esperienza vera di Özpetek. Tuttavia sappiamo per certo che la storia tra il protagonista e il partner non ha nulla a che fare con la realtà. Özpetek si è sposato l'anno scorso, dopo anni di convivenza col compagno Simone. Il finale del libro non si può raccontare, lo so, ma posso dire che non è un matrimonio segreto. Quindi come si dovrebbe interpretare questa intromissione fantastica? Che significato ha la successione di eventi che portano a quel finale? Perché con tutta la buona volontà non riesco a capire. Mi sembra piuttosto che Özpetek abbia scomodato un tema anche doloroso e faticoso per dare un'altra passata di smalto ad una storia che già aveva la consistenza di una caramellina di zucchero. Peraltro il modo in cui tratta il tema in questione è di una superficialità agghiacciante e rischia di smuovere nel lettore sensi di colpa e stuzzicare ferite ancora aperte, quando non se ne sente proprio la necessità.

Alla fine devo dire che il libro mi è abbastanza piaciuto: ben scritto, scorrevole, con uno stile elegante nella sua semplicità ed evocativo nelle descrizioni. Troppo dolce in alcuni passaggi, stucchevole, tanto che ho dovuto inframmezzarci un po' di letture gotiche per smorzare gli zuccheri, ma godibile. Tuttavia rimane il grande ma sul finale. Un libro che non rileggerò e che non mi sento di consigliare, a meno che non si amino le storie smielate.

domenica 9 luglio 2017

57. Morbose fantasie - Jun'ichirō Tanizaki

Più riguardo a Morbose fantasieJun'ichirō Tanizaki è un maestro della scrittura giapponese. Nato nel 1886, sorprende per la modernità delle tematiche, o meglio per la natura scioccante dei suoi scritti. Tanizaki si addentrò con il proprio lavoro nei desideri oscuri dell'uomo, nelle fantasie inconfessabili, nel torbido della libido, concentrandosi soprattutto sul tema del rapporto uomo-donna. Il concetto di amore in Tanizaki è masochistico: l'uomo è sempre in balia di una donna bellissima e crudele, una dea malvagia che può fare di lui ciò che vuole, anche togliergli la vita.
Il romanzo breve "Morbose fantasie", opera giovanile pubblicata a puntate in Giappone nel 1918, non si discosta in questo dal resto della produzione dello scrittore.

I protagonisti sono fondamentalmente due: Takahashi, uno scrittore, persona rispettabile e pragmatica ma pronto a spendersi per gli amici o chi ritiene sia in pericolo, e Sonomura, suo ricco amico dalla passione morbosa per il macabro e considerato da Takahashi sull'orlo della pazzia.
A questi si aggiunge una donna misteriosa, bella seppur imperfetta, perché carismatica, passionale e soprattutto crudele e perversa: Eiko. Ma la bella Eiko apparirà in un secondo momento...

La storia si apre con una telefonata: Sonomura chiama l'amico per chiedergli di andare con lui ad assistere a un omicidio. Inizio inquietante e misterioso, da vero thriller, con tanto di momento investigativo: Tanizaki, che era un grande fan di Edgar Allan Poe, si ispira ad alcuni dei suoi racconti, in particolare alle sue detective stories e a "Lo scarabeo d'oro", citato apertamente da Sonomura nel romanzo. E' proprio durante questa strana ricerca che i due vedono per la prima volta Eiko e ne rimangono folgorati. Inevitabilmente il loro incontro finirà per cambiare la vita di entrambi, in particolare quella di Sonomura.
Proprio Sonomura è, a mio parere, il protagonista della storia, sebbene non ne sia il narratore. Ci viene presentato come un uomo annoiato dalla vita, alla continua ricerca di nuovi stimoli, nuove passioni, e per questo disposto a fare qualsiasi cosa, anche mettere a repentaglio la propria vita. Sonomura incarna secondo me il nucleo morboso dell'opera. Il suo desiderio di evasione e di cambiamento lo rende una persona instabile, un uomo disperato che cerca qualcosa di estremo pur di sentirsi vivo. Per un uomo così, anche la vita perde di senso e diventa un bene come un altro, a cui si può persino rinunciare.

Come dicevo, l'inizio è quasi quello di un giallo ed è a mio avviso molto appassionante. Tanizaki ha uno stile fluido e semplice, eppure ricco di particolari. Se avessimo una mappa di Tokyo di inizio secolo si potrebbero seguire gli spostamenti dei protagonisti passo passo, per quanto il tragitto è dettagliato. Le atmosfere sono innegabilmente giapponesi ma molto moderne; insomma, se non fosse per i progressi tecnologici ci si accorgerebbe a malapena di visitare un Paese vecchio di un secolo.
Tuttavia verso la fine il tono del romanzo cambia e il finale giunge inaspettato, spiazzante e, per me, un po' deludente. Forse è stato il crollo della tensione accumulata, che mi ha annebbiato la mente nel momento in cui i protagonisti fornivano tutte le spiegazioni del caso...

Tanizaki è famoso, come già accennato, per la sua esplorazione delle fantasie sessuali e delle relazioni più morbose. La fantasia centrale, in questa storia, è quella dell'omicidio. Tuttavia si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a una serie di scatole cinesi, perché se a prima vista l'incarnazione di tale fantasia malata è Eiko, presto ci si rende conto che Sonomura lo è altrettanto, nel suo smodato desiderio di presenziarvi prima e di esserne protagonista poi. E che dire del narratore, che a sua volta cede alla tentazione di assistere non a uno, bensì a due omicidi, il secondo dei quali con l'amico Sonomura come vittima?
Questo gioco di specchi, questa fantasia nella fantasia, è un po' il trend del romanzo. Anche il tema della follia ha lo stesso sviluppo contorto. Sonomura viene presentato come pazzo, ma presto ci rendiamo conto che la sua lucidità mentale è impressionante, direi superiore a quella di Takahashi, e quelle che si credevano sue illusioni si rivelano fondate. Tuttavia il suo comportamento torna ad essere folle, in un susseguirsi di scelte scellerate che rivelano la verità soltanto alla fine.
Anche il personaggio di Eiko, la trasformista, colei che ammalia, seduce e tradisce, si rivela una sovrapposizione confusa di strati, tra verità supposte, inganni e depistaggi. Femme fatale, personaggio che mai può mancare nelle storie di Tanizaki, ha in questo libro un carattere particolare, più imperniato sulla maschera che porta che sulla sua vera natura di dominatrice.

Arrivati dunque in fondo, posso dire che questo romanzo mi sia piaciuto? Sicuramente è godibile e accattivante; la prima parte scorre e cattura il lettore e la storia è tutt'altro che banale, anzi riserva alcuni colpi di scena. Ciò che non mi ha convinto del tutto è stato il finale, che continua a parermi un po' sottotono rispetto al resto del libro. Insomma, una lettura gradevole che mi ha introdotto ad un autore talentuoso che vorrei conoscere meglio e che approfondirò; ciononostante questo non si può definire un suo capolavoro. Perfetto per una lettura veloce (soltanto 82 pagine!), da divorare tutto in un weekend.