domenica 29 ottobre 2017

71. William Goldman - The Princess Bride (La storia fantastica)

Ci sono film che segnano una generazione. Per me, nata nel 1980, i film che hanno fatto epoca sono "Ghostbuster", "Gremlins", "I Goonies", "La storia infinita" e tanti, tanti altri. Impossibile fare un elenco accurato. Uno dei film su questa lista però è senz'altro "La storia fantastica", titolo assolutamente lontano dall'originale (che sarebbe "La principessa sposa") ma ormai passato nella memoria a lungo termine di tutti noi. Chiunque abbia tra i 35 e i 40 anni e non riconosca la frase "Hola. Mi nombre es Inigo Montoya, tu hai ucciso mi padre, preparate a morir!" è probabilmente una persona losca e indegna d'amicizia. Un po' come uno che non sa chi è Artax, per intenderci.
A proposito, in caso ci sia qualcuno che sguazza nell'ignoranza e voglia rimettersi in pari con l'umanità, abbiamo un contributo cinematografico da Youtube:


Quello che non molti sanno, invece, è che il film "La storia fantastica", che vede tra i protagonisti il mitico André the Giant e una giovanissima Robin Wright, è stato tratto da un libro. Tipo, io questo film lo conosco a memoria, eppure del libro non sospettavo l'esistenza. Sacrilegio!
Quando ho scoperto il titolo del romanzo è entrato in direttissima nella top dei libri da comprare. Poi, misteriosamente, (ma mica tanto, perché è una cosa che, ahimè, succede abbastanza spesso in questa casa) è rimasto a prendere polvere su uno scaffale... Fino a quest'anno, quando mi sono decisa, finalmente, a concedergli un po' del mio tempo per raccontarmi la sua storia.

La prima cosa che devo sottolineare è che, per chi è familiare col film, il libro non ha praticamente nulla di sorprendente da dire, e anche di elementi extra ce ne sono ben pochi. Questo non tanto perché il libro sia scarno, ma perché il film è stato fatto con la massima fedeltà all'originale, mantenendo i dialoghi quasi inalterati e gli eventi fondamentalmente coincidenti. Cosa abbastanza usuale per gli anni '80 (mentre non va molto di moda al giorno d'oggi) ma ancora più probabile quando lo sceneggiatore del film e lo scrittore del romanzo sono la stessa persona. William Goldman ha scritto molte sceneggiature per Hollywood, siano esse adattamenti o originali, e sul suo materiale ha fatto un ottimo lavoro. Quindi se avete amato il film ritroverete ogni dettaglio, se vi ha fatto schifo non c'è salvezza.
Però prendiamo in considerazione la possibilità che qualcuno non conosca nemmeno il film e voglia farsi un'idea del romanzo da zero.

"The Princess Bride" è una storia fantastica (ahahahahah) imperniata sulla figura di una giovane, bellissima fanciulla, Bottondoro (o nell'originale Buttercup), e del suo innamorato Westley. Non si può dire granché del romanzo senza spoilerare in parte la trama, ma ciò che sicuramente si può dire è che si tratta di un "classico di vero amore e travolgente avventura" o, come dice il retro di copertina della mia edizione, "un fiaba di scherma, lotta, tortura, veleno, vero amore, odio, vendetta, giganti, cacciatori, cattivi, buoni, bellissime fanciulle, serpenti, ragni, bestie, inseguimenti, fughe, menzogne, verità, passione e miracoli". Ebbene sì, c'è tutto questo nel romanzo suddetto, e forse anche qualcosa in più.

Tuttavia qualche magagna a questo libro l'ho trovata. Sarà che i ricordi d'infanzia generano aspettative altissime, ma non sono stata del tutto soddisfatta dalla lettura. Ecco cosa mi ha infastidito.

Prima di tutto la cornice. Goldman finge di aver soltanto tagliato l'originale, ad opera di tale Morgenstern, tenendo la parte ricca di trama ed eliminando tutti i riferimenti storici e le parti descrittive. Secondo Goldman, Morgenstern è stato uno dei più importanti scrittori di Florin, il Paese in cui è ambientata la storia, e l'autore intendeva con questa fiaba ironizzare sulla società e la politica dello stato. Naturalmente tutto questo non è altro che una baggianata alla Manzoni, il classico "ho trovato un manoscritto in un baule con sopra questa storia sensazionale, state a sentire!". Ci potrebbe anche stare, se non fosse che per essere una baggianata è ripetuta decine di volte, in modo estremamente dettagliato e prende pagine e pagine di introduzione. Decine di pagine. Troppe, a mio avviso. In più questo dà modo all'autore di corredare la storia di commenti piuttosto intrusivi per tutta l'opera, cosa a tratti simpatica, ma in alcuni punti francamente un po' pesante.
Anche nel film c'è una cornice: il nonno che racconta la fiaba al bambino. In parte riprende i commenti dell'autore e la storiella di come lui sentì la storia per la prima volta da suo padre, mentre era molto malato. La differenza è che nel film sono momenti brevi, funzionali e anche simpatici, mentre nel libro l'autore sbrodola troppo.

Un'altra cosa che si percepisce molto di più nel libro che nel film è lo strisciante maschilismo che ne imbeve le pagine. Nel film la protagonista non è davvero Bottondoro: a ben vedere praticamente nessuno si ricorda di lei, mentre tutti noi, anche le femminucce, abbiamo empatizzato con Westley o con gli altri personaggi, ad esempio Inigo Montoya. Sono le storie, i sentimenti, la forza d'animo di un personaggio a renderlo importante e caro al lettore/spettatore. Invece nel libro ci si focalizza molto su Bottondoro, sottolineando in continuazione quanto sia bella, bellissima, la più bella del mondo, ma per il resto un'incapace, ignorante come una capra, stupida e pure maleducata. Non viene detto una volta, ma più e più volte; lo stesso Westley si sente di far presente a Bottondoro di non sforzarsi troppo a pensare, che lei è bella, ma di cervello non ne ha. Devo dire che l'effetto è stato sgradevole. Se penso che questa fiaba è stata inventata dall'autore per allietare le figliolette mi viene un po' di angoscia...

Anche il finale è un po' deludente, secondo me. L'autore non vuole chiudere con un semplice "e vissero tutti felici e contenti" e allora butta lì qualche riferimento a future disgrazie, ma poi non elabora. Rimane così, un po' incompiuto, e sinceramente allora avrei preferito una conclusione banale.

Positivo invece è lo spazio maggiore che viene dato ai coprotagonisti, Inigo e Fezzik, alla loro storia e alla loro personale avventura nel salvataggio di Bottondoro. Sono due personaggi che mi hanno sempre catturato molto e sono stata molto felice di leggerne di più.
Un'altra sorpresa è stato scoprire che Vizzini, uno dei cattivi, si chiama davvero Vizzini nel libro e che, proprio come nel film, è il Siciliano! Niente versioni italiane rivedute e corrette per una volta, è una soddisfazione.
Tutto sommato i cattivi nel libro sono più cattivi e i buoni più buoni e gli innamorati più innamorati. E' tutto un po' più.

Consiglierei la lettura di questo romanzo? Bella domanda... Non è un imperdibile, secondo me, se si conosce la versione cinematografica. Per una volta sono abbastanza intercambiabili. Forse se non avessi visto il film e mi fosse soltanto capitato in mano il libro l'avrei amato di meno. Però per chi ha amato il film è un modo per riscoprire la storia e arricchirla di particolari, rivivendo le emozioni che ci hanno accompagnati da bambini.

martedì 24 ottobre 2017

70. Ishmael Beah - Memorie di un soldato bambino


Ishmael Beah era solo un ragazzino di dodici anni quando la guerra gli è piombata addosso. Un ragazzetto normale, come quelli che si possono incontrare per le strade delle nostre città anche qui in Italia. Aveva una passione, la musica rap, si vestiva con stile cercando di emulare i suoi miti hip hop, passava il tempo imparando a memoria i testi delle canzoni con un gruppo di amici affiatatissimo. Sì, andava anche a scuola, come fanno tutti, anche se non ne aveva sempre tanta voglia, e aveva qualche problemino in famiglia, perché papà e mamma avevano divorziato e mamma abitava in un villaggio vicino insieme al fratellino più piccolo, mentre Ishmael e suo fratello più grande erano stati lasciati a vivere col papà e la sua nuova moglie, che con loro non aveva proprio un buon rapporto...
Che cosa distingue questo ragazzino simpatico e un po' scavezzacollo dai tanti preadolescenti che conosciamo? Be', tanto per cominciare il fatto che Ishmael vivesse in Africa, più precisamente in Sierra Leone, all'epoca di questa storia. L'altro dettaglio è che tutte le persone di cui ho parlato, a parte Ishmael, non esistono più. Sono stati spazzati via dalla guerra civile, all'improvviso, tutti tranne lui, che forse ha subito una sorte persino peggiore: dopo aver visto la morte in faccia, aver camminato fino a non poter più muovere le gambe ed essere quasi morto di fame, Ishmael è stato obbligato a diventare un soldato bambino.
La storia di Ishmael, nonostante lo stile scorrevole, chiaro e coinvolgente, non è una delle tante inventate per scrivere un bel romanzo avventuroso; di bello non c'è proprio nulla in una storia come questa, perché è vera e racconta un mondo tragico, una disumanità mostruosa, ma che ancora oggi è la quotidianità di milioni di persone in giro per il mondo. Ishmael ce l'ha fatta, è sopravvissuto (se no non avrebbe potuto scrivere questo libro...) ma i segni di ciò che ha visto e ha fatto resteranno con lui e in lui per sempre, non potrà mai dimenticare né cancellare la verità: soltanto venire a patti con essa e imparare a sopravvivere, poi a vivere, guardare avanti...
Oggi Ishmael vive negli Stati Uniti, il suo nuovo Paese, la casa che l'ha accolto, grazie a una donna coraggiosa e generosa che l'ha preso con sé senza esitazione quando lui non aveva più nessuno a cui affidarsi. Ha potuto studiare, si è sposato. Lieto fine, insomma. Sono stata felice di vedere che questo giovane, mio coetaneo, ha trovato una via d'uscita dal proprio passato, perché mi ha dato speranza, non solo per lui ma per tutti coloro che si trovano e si troveranno nei suoi panni, perché non è mai detta l'ultima parola e anche dall'inferno si può uscire vivi.
Ma torniamo un passo indietro.

E' il 1993. Ishmael vive in un villaggio del sud della Sierra Leone, Mogbwemo. E' un giorno normalissimo e lui se ne sta tranquillo coi suoi amici, anche se si dice che alcuni villaggi siano stati attaccati dai soldati ribelli. Loro però non danno molto peso a queste notizie; se fosse vero e ci fosse pericolo le loro famiglie si sarebbero mosse, no? Invece tutto scorre normalmente e quel giorno Ishmael e i suoi amici decidono di marinare la scuola, per recarsi in un villaggio vicino a fare uno "spettacolo rap". Mettono la loro musica americana, rappano sulla voce dei loro idoli e ballano, intrattenendo i passanti. Si divertono e alla gente piace, soprattutto ai ragazzini. Sono conosciuti lì attorno. Poi di colpo arriva una notizia incomprensibile: Mogbwemo è stata attaccata, distrutta, gli abitanti sono in fuga e molti sono morti, uccisi dai ribelli. Ishmael e i suoi amici non possono credere alle loro orecchie: la loro famiglia, tutto ciò che hanno al mondo è appena andato distrutto.
Né le brutte notizie finiscono lì: i ribelli sono in marcia, si spostano, continuano ad avanzare perché hanno bisogno di cibo, munizioni e uomini, quindi bisogna scappare, perché arriveranno presto anche lì. Inizia così la lunga migrazione di Ishmael, che perde i suoi amici e li ritrova, rimane nuovamente solo e si perde nella foresta, trova nuovi amici e un villaggio sicuro e poi si ritrova di nuovo, in un secondo, in mezzo alla guerra.
Sembra quasi che lo segua, quella guerra maledetta. Ovunque vada, per quanto si nasconda quella lo stana sempre, gli sta dietro fino a che lui non scapperà dal Paese, attraversando il confine con la Guinea, a nord, in un ultimo viaggio della speranza che infine lo porterà, rifugiato, negli Stati Uniti.

La storia di Ishmael è straziante. Attorno a lui succedono cose agghiaccianti, la morte è ovunque, la violenza è inimmaginabile. Lui è soltanto un bambino ma si ritrova solo e cerca di sopravvivere come può. Ogni capitolo che passa sembra che i suoi sforzi vadano nella direzione giusta, poi di colpo arriva qualcosa di peggio. Ho pensato seriamente che io mi sarei arresa, verso la metà, quando il destino pare giocargli uno scherzo peggiore degli altri. Invece Ishmael è resiliente. E' forte, è determinato, vuole sopravvivere. Forse sarà proprio questa resilienza a farlo arrivare fino in fondo, almeno in parte, a tenere insieme i pezzi di un'anima molto ferita.

Ci sono due cose che mi hanno colpito molto in questo libro, a parte la crudezza di alcune immagini e la violenza gratuita, perché quelle in un libro così le do quasi per scontate.
La prima è che per buona parte del libro il lettore identifica i cattivi con i ribelli che hanno distrutto il villaggio di Mogbwemo; tuttavia non saranno loro a fare di Ishmael un soldato bambino, ma l'esercito regolare sierraleonese. I buoni mandati a difendere l'ordine obbligheranno tutti i maschi in grado di prendere in mano un fucile a diventare soldati, insegneranno loro a sparare, a strisciare nel fango e a tagliare la gola ad un uomo, daranno loro droga in grandi quantità e li porteranno a fare strage di altri combattenti e inermi civili.
Credo che sia uno di quei punti dolenti con cui si deve confrontare, ad un certo punto, qualsiasi pubblico adulto: nella storia, quella vera, i buoni e i cattivi non esistono, non nell'accezione che noi diamo al termine. Sia una parte sia l'altra sono fondamentalmente grigie, hanno ragione e sono colpevoli allo stesso tempo, sebbene chi è a capo delle più importanti decisioni abbia sicuramente una responsabilità, in positivo o in negativo, più definita. Hitler era cattivo, ma anche Truman e Stalin non scherzavano. Il discorso è complicato, molto più di quanto possa essere commentato così, con due parole su un blog, ma questo libro trabocca di questa verità: i soldati bambini di cui fa parte Ishmael non sono né più buoni né più cattivi di quelli catturati dai ribelli e, con gli stessi identici mezzi, costretti a combattere contro l'esercito. Sono tutti innocenti, vittime di carnefici spietati che li usano come pedine sacrificabili e ne deturpano il fisico e la psiche senza battere ciglio, e allo stesso tempo sono ovviamente colpevoli di non essersi sottratti, a costo di morire, di aver accettato di uccidere qualcun altro, spesso in modo efferato, per sopravvivere.
Ad ogni modo questo racconto ci dà anche una visione più realistica della situazione in Africa, nelle zone in cui si parla di guerra civile: spesso l'esercito che si ritrova a difendere l'ordine è peggio in arnese delle truppe ribelli, spesso è composto da persone che non hanno una formazione militare seria e quasi sempre si scontrano con gli stessi livelli di violenza e scorrettezza. Non c'è una linea di condotta, c'è solo la necessità di portare a casa la vittoria per sottrarre al nemico vettovaglie e munizioni.

La seconda cosa che mi ha colpito è il racconto di quando Ishmael viene salvato dalla boscaglia, portato via da un gruppo di volontari dell'Unicef e inserito in una comunità protetta per il recupero di bambini soldato. E' il 1996, sono passati 3 anni dall'inizio della guerra per Ishmael e lui è molto cambiato, così come tutto il mondo attorno a lui. Ciò che mi ha colpito è la violenza che lui e i suoi compagni esternano in continuazione una volta portati in salvo. Sono arrabbiati, drogati in crisi d'astinenza, sono contrariati: vorrebbero tornare a combattere, ormai è quello il loro posto, si sentono al sicuro solo con un fucile sulla spalla. Allora insultano, aggrediscono, distruggono. Infrangono le regole del centro ancora e ancora, forse sperando di essere mandati via, rimandati nella foresta; tuttavia non succede. Il personale è gentile e sorridente nonostante tutto, i materiali distrutti vengono quotidianamente riforniti, i loro eccessi violenti perdonati una volta passati. Ho ammirato questi eroi, gente che ha scelto di stare così sul fronte, a combattere ogni giorno perché almeno uno di tutti questi ragazzi riscoprisse la propria umanità e potesse essere reinserito in società. Che forza di carattere, che animo... Io non sarei mai in grado di sopportare di lavorare in una condizione simile, sarei vissuta nel costante terrore di essere aggredita, avrei reagito per difendermi e avrei potuto dire cose di cui mi sarei poi pentita, probabilmente. Davvero sono queste le persone che, con la loro perseveranza e il loro spendersi per gli altri, soprattutto per i più giovani, cambiano il mondo.
La comunità in cui Ishmael è stato inserito gli ha salvato la vita, su questo non c'è dubbio. Gli ha restituito prima di tutto la capacità di provare emozioni, di affezionarsi, di affidarsi, di sognare un futuro.
Questo momento della vita di Ishmael mi ha fatto pensare a quanti oggi vivono la guerra, chi si ritrova a scappare per salvarsi la pelle e chi deve uccidere per farlo, ma anche chi magari la guerra l'ha vista solo di sfuggita, ma ha passato mesi, a volte anni, nell'angoscia di una morte incombente. Tante volte i rifugiati che arrivano in Europa dall'Africa o dal Medio-Oriente hanno comportamenti antisociali, aggressivi o genericamente maleducati, usano la forza per imporsi e commettono reati. Possiamo far finta che non sia vero ma è così. Quello che però è anche vero e la gente pare non ricordare mai è che questa gente nella maggioranza dei casi ha vissuto esperienze così traumatiche da non essere più se stessa: hanno dovuto spegnere la loro parte umana per sopravvivere alla violenza e una volta che i sentimenti sono addormentati quello che esce è l'istinto ferino, in totale mancanza di empatia. Molte di queste persone sono in stato di shock, hanno gravi sindromi post-traumatiche e avrebbero bisogno di lunghe cure psicologiche per ritornare alla normalità. Purtroppo non ci sono i soldi né le strutture per sostenere questo sforzo e questa povera gente viene lasciata a se stessa e finisce per farsi sopraffare dalla paura che si trasforma in rabbia, dai ricordi della violenza che diventano aggressività incontrollata.
Ciononostante c'è una via d'uscita, ce l'ha mostrata proprio questo libro: dall'inferno si esce, se aiutati, le ferite possono rimarginarsi e la psiche ricomporsi. C'è speranza, tanta speranza, e vita e amore. Con il carico di dolore che portava con sé questo libro sono contenta che il messaggio sia alla fine uno di speranza, di sopravvivenza, e non di compatimento e di morte.

Noi in Europa di tutte le guerre africane degli ultimi cinquant'anni sappiamo poco e niente, anzi non sappiamo praticamente nulla nemmeno di quelle in corso. Fatichiamo a capire le ragioni, le rivalse territoriali di tribù dai nomi per noi strani che si fondono a lotte religiose e a rivolte politiche spesso orchestrate ad arte da qualche riccone per il possesso delle risorse del Paese. La Sierra Leone è una nazione relativamente piccola, schiacciata tra tanti altri stati fondati dagli Europei, e ha una triste storia legata al traffico degli schiavi. Freetown, la capitale della Sierra Leone, ha un nome benaugurante, che voleva essere l'incarnazione della speranza nel futuro di chi, dall'America, era tornato in patria nuovamente un uomo libero. Invece la violenza ha prevalso ancora e il Paese non è molto stabile politicamente nemmeno adesso, sebbene la guerra civile sia conclusa.
Forse è proprio nel leggere storie africane che il mio giro del mondo letterario acquista maggiormente senso: scoprire la storia che abbiamo ignorato, i popoli che abbiamo dimenticato, e dare un volto ai tanti milioni di persone che vivono in quel continente senza avere una chiara voce. Ho molti altri libri sull'Africa da leggere e molti parlano, ahimè, di guerra. Spero mi diano tanto quanto Ishmael Beah in "Memorie di un soldato bambino".

giovedì 19 ottobre 2017

69. Margaret Atwood - The Handmaid's Tale

"There is more than one kind of freedom," said Aunt Lydia. "Freedom to and freedom from. In the days of anarchy, it was freedom to. Now you are being given freedom from. Don't underrate it."


("Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell'anarchia, c'era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo.")

A volte è proprio grazie a un film o a una serie televisiva che si scoprono gioielli della letteratura. Non avevo mai sentito parlare di questo romanzo prima che venisse girato il serial andato in onda quest'anno, ma una volta adocchiato ho bramato disperatamente averlo e leggerlo. Ecco la copertina della mia copia, rigorosamente in lingua originale, altro regalino che mi sono fatta da Blackwell's a Oxford...

"The Handmaid's Tale" ("Il racconto dell'Ancella" nella versione italiana) è un romanzo distopico pubblicato ormai trent'anni fa, nel 1986, da Margaret Atwood, scrittrice e poetessa canadese.
La prima cosa che mi ha colpito di questo romanzo è la costruzione e lo stile narrativo: raccontato tutto in prima persona, è una sorta di memoria orale, solo in seguito trascritta, di una donna senza nome, e quindi senza identità. Partendo dalla descrizione della propria routine, dei propri spazi vitali e delle poche persone che la circondano, la donna ci mostra poco a poco gli orrori del mondo in cui vive, una dittatura teocratica di ispirazione cristiana veterotestamentaria in cui la vita di ogni essere umano è controllata e decisa a priori da una rigida serie di leggi.
Lo stile della Atwood è delizioso: delicato, raffinato, ricco di potere evocativo, scorre fluido e disegna attorno a noi un paesaggio mano a mano più cupo, freddo e aspro. Ciononostante per tutto il libro sono stata accompagnata da immagini luminose, cariche di colori forti, rosso, blu, verde, ma sfumati nel bianco dei veli, delle tende, delle lenzuola. Non mi ha sorpresa scoprire che quest'autrice ha scritto anche poesia; a mio avviso il tocco si sente. Inoltre la narrazione è perfettamente dosata, bilanciata: i capitoli si susseguono come una collana di perle, impossibile fermarsi, e ogni sezione è inframmezzata dalla Notte, il tempo del riposo ma anche della solitudine e della meditazione. Il tempo delle cose segrete, dei ricordi e delle follie. Se non avessi ricominciato a lavorare questo libro me lo sarei divorata; così è durato qualche giorno in più...

Impossibile parlare di questo romanzo senza spoiler. Quindi mi spiace ma chi non l'ha letto salti alla fine.

[Beware! Spoilers ahead!]

Ho sentito dire un po' di tutto di questo libro. Devo dissentire con alcuni pareri.

Secondo me questo romanzo non si concentra sullo sfruttamento sessuale della donna; il centro della storia non è quello. Non è solo la vita delle Ancelle ad essere costellata di continui abusi, poiché le Marta (le serve di casa) e le Mogli sono altrettanti impotenti, relegate al loro ruolo e alla maschera che devono indossare quotidianamente. Compito dell'Ancella è accoppiarsi col Comandante di casa, del quale porta il nome, e dargli una prole, ma il palese abuso sessuale intrinseco non è né meglio né peggio di ciò che passano le altre donne, probabilmente. La Atwood, piuttosto, fa qui una riflessione sui rapporti tra i sessi e i delicati equilibri che rischiano di spezzarsi in continuazione all'interno della nostra società. Inoltre vi è una evidente attenzione alla pericolosità della religione quando diventa una scusa per imporre il proprio stile di vita e diffondere la violenza.
La Atwood scrive pochi anni dopo aver visto la realizzazione di una catastrofe sociale molto simile: la rivoluzione in Persia e l'instaurazione di quello che è l'attuale governo teocratico in Iran. Probabilmente quegli eventi erano molto freschi nella mente della scrittrice e per una donna colta e sensibile all'arte non poteva passare inosservato non solo l'uso criminale della violenza nelle purghe della rivoluzione, ma anche la veloce presa di potere di un gruppo di estremisti religiosi che per prima cosa attaccarono le donne e la diffusione della cultura stessa. Limitazione del movimento, dell'abbigliamento, delle attività consentite, censura dei libri, dei film, della musica. E ci sono riusciti, il regime è ancora lì: in pochi anni la Persia passò da un grande stato simil-occidentale, per quanto piagato da annosi problemi interni, a un mondo isolato, arretrato e controllato tramite il terrore. Non è forse questo che narra la Atwood? Persino di più: quel che vuole dirci è che il problema non è la religione islamica, checché ne dica qualche scrittore o scrittrice occidentale, perché potrebbe succedere anche qui, anche a noi, anche nella diversissima, modernissima e cristianissima America del Nord.
Personalmente ho sentito un velo di inquietudine avvolgermi quando l'autrice cita, con nonchalance, gli eventi all'inizio della rivoluzione, l'attentato alla Casa Bianca di matrice islamica, poi rivelatosi una montatura per destabilizzare il Paese, e le milizie armate che se ne stavano pronte ad aspettare di intervenire e prendere il controllo... Se fossi un po' più complottista direi che è uno scenario per lo meno credibile in questi giorni di tensione politica, proprio e soprattutto negli Stati Uniti.

La vita della protagonista, ovviamente, è orribile, un inferno, in cui lei combatte, cercando di restare disperatamente attaccata ai ricordi della sua vita normale per non impazzire, per non perdere se stessa e la speranza, per non suicidarsi.
Non ha nome, la nostra protagonista, e credo che ci siano due motivi alla base di questa scelta. Prima di tutto togliere il nome a una persona è un modo per togliere l'identità, per farlo diventare un numero, un ingranaggio. Deumanizzare per controllare, annullare la resistenza psicologica. Le Ancelle non hanno più un nome di battesimo ma prendono il nome di chi le possiede perché si mettano bene in testa che sono ormai solo un involucro al servizio del padrone di casa. Se passasse abbastanza tempo, se nessuno pronunciasse quel nome abbastanza a lungo, l'Ancella finirebbe per perdere se stessa, per sempre.
Non solo. L'Ancella è senza nome perché è ogni donna. "Everyman", la famosa morality play, vale a dire un dramma allegorico, ha come protagonista proprio un uomo di nome Everyman, cioè "Ogni uomo", perché egli è rappresentativo di tutta l'umanità. Così l'Ancella volutamente senza nome è simbolo, immagine di qualsiasi donna, di ciò che potrebbe diventare.
Questa è una delle cose che più mi hanno dato fastidio nella serie televisiva, così come nella resa filmica: subito le hanno appioppato un nome, di fantasia chiaramente, perché non poteva esistere una protagonista senza un'identità. Volevano sapere chi fosse, darle una connotazione, che invece non doveva avere. D'altronde questo ha influito sulla caratterizzazione che poi è stata data a questa donna nelle succitate versioni: alla fine viene sempre ritratta come una combattente, una ribelle, una capopopolo quasi, che lotta per liberarsi e difendere le persone a cui vuole bene. Ne hanno fatto un'eroina e delle Ancelle un esercito, ma sono quasi certa che Margaret Atwood non volesse questo. L'Ancella non è un'eroina, ma solo una donna resiliente, che si piega ma non si spezza, che resiste in silenzio, cercando di non morire. Tutto qui. Perché non è credibile che una donna qualsiasi levi la testa in quel tipo di società e non venga giustiziata all'istante e perché le donne qualsiasi non lo fanno. Sono poche le vere ribelli, le altre hanno paura, com'è normale, e si difendono come possono. Credo che volesse parlare di loro l'autrice, che di eroi senza macchia ce ne sono già tanti nella letteratura e con quelli non si entra mai davvero in empatia.

L'autrice parla anche della corruzione insita nella società umana. Nemmeno Gilead, lo stato ideale fondato dai rivoluzionari nel romanzo, riesce a sottrarsi a questa condanna. Anzi, sono gli stessi capi della rivoluzione a mantenere in vita, con una serie di infrazioni al regolamento, usanze ritenute immorali, oggetti ormai proibiti, persino bordelli segreti. Pare che l'uomo, secondo la Atwood, sia geneticamente incapace di rinunciare alla trasgressione. In fondo in Italia questo modo di fare lo conosciamo bene, la gogna è sempre per gli altri, le regole sono per tutti tranne che per noi stessi, che se invece possiamo aggirarle è meglio. Chissà, probabilmente questa inclinazione alla trasgressione è anche lo spazio di manovra che permette all'umanità, ogni volta che si trova in una situazione di sofferenza senza sbocco, di rinnovarsi, ricominciare da capo con nuove regole.

Come ho già citato, alla fine di questa lettura ho subito provveduto a vedere sia il film del 1990 sia l'acclamata serie televisiva. Io sono una difficile, nelle trasposizioni; è vero, non mi piace quasi mai niente. Se devo dire la mia, il film mantiene molto meglio le atmosfere che io ho immaginato leggendo e anche l'identità dei protagonisti. Il telefilm invece, nonostante ciò che si è detto su qualsiasi piattaforma, per me è stato un calvario.
Probabilmente per chi non ha letto questo libro la serie ha un appeal maggiore. Chiaramente, in assenza di un parametro, ogni cosa può sembrare ben fatta. Eppure c'è così tanta diversità, non tanto negli eventi in se stessi, perché quelli si sa che possono e a volte devono essere un po' rimaneggiati per poterli narrare in altra forma, ma proprio nel sentimento alla base del romanzo e nella sensazione che questo trasmette.
Una delle scelte più scellerate, secondo me, è la sessualizzazione estrema che è stata portata avanti, puntata dopo puntata. Se ci si fa caso, c'è almeno una scena di sesso in ogni singolo episodio, spesso più di una. Nel romanzo il sesso è certamente presente ed è sicuramente il momento più traumatico della vita della protagonista in casa del Comandante, ma è molto evanescente, poco descrittivo, poco presente. Persino la Cerimonia, cioè il momento in cui l'Ancella si accoppia col Comandante, viene citata più volte nei primi capitoli, ma sempre come allusione e non viene descritta fino a circa la metà del romanzo. La metà, vale a dire dopo diversi capitoli. Un'altra cosa che certamente si sente è l'estrema differenza tra il sesso che lei è costretta a fare con il Comandante e quello che fa più avanti con Nick, nelle sue scorribande pseudo-sentimentali. Ci sono alcuni dettagli che aiutano a trasmettere al lettore il disgusto per il sesso che è obbligata a fare, primo tra tutti la descrizione del Comandante stesso: un uomo vecchio, coi capelli bianchi e un fisico ormai cadente. A questo si aggiunge la presenza della Moglie, Serena Joy, che è ormai invecchiata a sua volta e la tortura affondandole il proprio anello di fidanzamento nelle mani. Una delle cose che l'Ancella ripete più spesso è che tiene sempre gli occhi chiusi, durante la Cerimonia, aspettando che sia tutto finito.
Che scelta fanno invece nel telefilm? Scelgono un attore ancora giovane per la parte del Comandante; non solo, un uomo piacente, potremmo dire sexy, dal sorriso misterioso e seducente come i suoi occhi scuri. Joseph Fiennes può piacere o no, non si discutono i gusti, ma è la cosa più lontana da un vecchio con la pancetta e i capelli bianchi. Mi piacerebbe sapere cosa ha giustificato una scelta simile. Purtroppo temo che qualche spettatrice/spettatore, guardando la serie, abbia anche pensato "Be', io da uno così mi farei dare una ripassatina anche subito, altro che Cerimonia...". Se anche soltanto una persona avesse formulato un pensiero simile guardandola, questa resa dell'opera avrebbe perso ogni valore, tradendone anzi lo spirito. Perché poi anche la Moglie sia stata rappresentata come una donna giovane e bella mi sfugge totalmente. Forse vecchia e disabile non sarebbe piaciuta al pubblico, che avrebbe pensato che in fondo il Comandante aveva ragione a rimpiazzarla... E perché quell'Ancella tiene sempre gli occhi aperti durante il sesso? Ma se pensiamo che addirittura l'hanno fatta depilare, cosa che nel libro era proprio sottolineata come proibita...
Sono tanti i perché generati da questa serie, almeno nel mio cervello. A fronte di una continua attenzione al sesso, quasi morbosa, tanto che hanno aggiunto personaggi extra per parlarne ancora un po', la Gilead televisiva è molto meno controllata di quella del libro, le Ancelle si muovono liberamente per casa e chiacchierano spensieratamente in ogni dove; tutto ciò mentre la parte forse più angosciante del romanzo è la costante sensazione di essere spiati, l'incapacità di gestire qualsiasi aspetto del proprio tempo e del proprio corpo in modo indipendente. Anzi, è proprio quel mutismo forzato, l'impossibilità di alzare gli occhi e salutare un uomo all'interno della casa stessa, l'essere costrette a leggersi praticamente le labbra per parlare che instilla una costante ansia, la paura che paralizza anche la protagonista per quasi tutto il tempo.
Come ho già detto, se devo scegliere una versione video del romanzo, mille volte meglio il film del 1990. Anni luce, proprio.

Dimenticando tutto questo parlare di televisione, vorrei spendere le ultime due parole sul finale. L'autrice simula una convention di studiosi del periodo storico a cui risale la testimonianza anonima dell'Ancella, dandoci così una visione di ciò che è successo dopo, non alla protagonista ma al suo mondo. 150 anni dopo la Repubblica di Gilead sembra essere collassata su se stessa, per tornare a una società molto simile a quella precedente, cioè alla nostra società contemporanea. Messaggio positivo, quindi: tutto passa. Non sappiamo invece se la nostra Ancella sia riuscita a scappare, a sopravvivere, ma ancora una volta forse non era quello il focus per la Atwood: lei è solo una tra tante e sappiamo che altre ce l'hanno fatta, si sono salvate e hanno lasciato le loro storie, e che il mondo è andato avanti e ha superato quel periodo.
Quello che mi ha lasciato un senso di disagio, riguardo quest'ultima parte, è la leggerezza con cui si parla di quel periodo storico e del racconto dell'Ancella. Sono i posteri: l'autrice dà un'idea del distacco emotivo con cui si guardano e giudicano gli eventi e le esperienze altrui quando sono lontane dal nostro vissuto. Sono vite umane, quelle di cui si parla, violenze, morti, ma visto che sono così distanti da chi le legge ci si può anche fare una battuta sopra, e perché no qualche risata.
Non serve vivere nel futuro per avere quel genere di distacco dagli eventi. Noi stessi siamo tremendamente freddi nel discutere al bar delle situazioni in Medio-Oriente o in Africa...

[End of spoilers!]

Conclusione: questo romanzo è meraviglioso e struggente allo stesso tempo, non capisco perché non fosse più famoso a livello mondiale, ma merita di essere letto e discusso al giorno d'oggi come trent'anni fa. Un libro modernissimo, fortemente attuale nel suo essere una distopia (quindi riuscitissimo). E' entrato di prepotenza nella mia lista dei preferiti. Deve essere letto. Soprattutto se si è familiari con la cittadina di Bangor, Maine, negli Stati Uniti! (Sì, ci ho messo un po' a capirlo, ma è proprio ambientato lì. Vicino a casa di Stephen King, dove tanti altri eventi orrorifici hanno regolarmente luogo in letteratura. Brrr...)

sabato 14 ottobre 2017

68. Kurt Vonnegut - Ghiaccio-nove

Il gruppo di lettura in estate non va in vacanza: raddoppia. Quest'estate, dopo "Rinascimento privato" di Maria Bellonci è toccato a "Ghiaccio-nove" di Kurt Vonnegut.
Due romanzi che più diversi non si può, uno è un mattone, l'altro un libricino minuscolo; uno un romanzo storico, che parla di fatti veramente accaduti, l'altro un romanzo fantascientifico distopico, carico del graffiante sarcasmo tipico di Vonnegut. Uno l'esaltazione dell'Umanesimo, l'altro un ritratto del potenziale autodistruttivo dell'uomo.

Bisogna subito dire due cose su questo romanzo:
1. l'avevo già letto e amato qualche anno fa, anche se stavolta penso di averlo amato e capito di più;
2. il titolo italiano fa schifo. Il titolo originale è "Cat's cradle", tradotto "La culla del gatto" e fa riferimento a quel giochino che magari avrete imparato da piccoli, fatto con un elastico o un filo annodato, e che consiste in una serie di scambi e passaggi di mano, così che il filo possa assumere varie, affascinanti conformazioni. Cat's cradle è il nome che si dà a questo gioco in inglese (in italiano non credo esista un nome, anche se nel libro cita un termine, ripiglino, sinceramente mai sentito).  Se ancora non sapete di cosa sto parlando guardate qua:


Il fatto che l'autore abbia voluto mettere l'accento su questo gioco, citato alcune volte all'interno della narrazione, e non sul composto chimico Ghiaccio-nove qualcosa vorrà dire. Ma andiamo con ordine.

La storia è raccontata a posteriori dal protagonista, che all'inizio in una palese citazione di "Moby Dick" dice di chiamarsi Jonah, o meglio John. Tutto cominciò, dice, quando decise di scrivere un libro, intitolato "Il giorno in cui il mondo finì", facendo riferimento al giorno in cui fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Questo lo portò a contattare i familiari di uno dei padri di quella bomba, il dottor Felix Hoenikker, per chiedere loro come il padre, ormai defunto, avesse vissuto quella particolare giornata.
Ecco, fino a qui, quindi fino a pagina 10 circa, il riassunto racchiude già tutto il libro. Ebbene sì, perché "Ghiaccio-nove" è proprio la storia di come il mondo finì, o meglio di come l'umanità riuscì a inventare qualcosa di mostruosamente pericoloso e poi, con somma stupidità, ad autodistruggersi.
Parlare di questo libro è davvero difficile, perché ha così tanti livelli di lettura da lasciare veramente un po' spiazzati. Cercherò di mettere un po' di ordine in questa recensione e, attraverso di essa, nella mia mente.

Alla base sta appunto la storia di John, un nome a caso, il nome più banale, più comune della lingua inglese. Un nome che però, come Ismaele, ha forti connotazioni bibliche (il famoso Giona che visse nella balena). Se dobbiamo partire da lì, Giona era un portasfiga di livello divino, perché dio ce l'aveva con lui e lo voleva punire, mandandogli ogni calamità. Ecco, diciamo che il nostro John o forse Jonah le sue belle calamità se le porta proprio dietro.
Come dicevo contatta la famiglia Hoenikker, in particolare il più piccolo dei tre figli dello scienziato. Questi gli risponde pure e inizia così un avvicinamento che poi arriverà per vie traverse, ma fortemente manovrate dal fato, a fargli incontrare i colleghi più prossimi del dottor Hoenikker prima e l'intera famiglia (ovvero i tre figli) poi.
Quello che invece John non sa è che i tre portano con sé qualcosa di preziosissimo e allo stesso tempo letale, l'ultima invenzione del padre: il Ghiaccio-nove. Questo non è altro che un tipo di ghiaccio molto più resistente, che fonde alla temperatura di circa 45 gradi. La vera particolarità di questo ghiaccio, esistente soltanto in frammenti, è che a contatto con qualsiasi molecola d'acqua esso è in grado di trasformarla a sua volta in ghiaccio-nove. John quindi abbandonerà il proprio intento letterario per farsi trascinare, insieme a una sgangherata combriccola di personaggi, su un'isola sperduta dei Caraibi, dove risiedono personaggi misteriosi e straordinari.

Come si intuisce dal commentino fatto poco sopra, la storia finisce malino. Non proprio male, ecco, ma decisamente con l'amaro in bocca.
Naturalmente però l'autore ripete al lettore che questa storia è falsa, tutta falsa, dall'inizio alla fine. Una marea di scempiaggini. Come lo fa? Be', in ben tre modi.
Innanzitutto con le prime parole del libro, nella dedica:

"Niente è vero, in questo libro."

Il messaggio mi sembra cristallino. Nella stessa pagina inoltre riporta una citazione dal libro di Bokonon. Cos'è il bokononismo? Chi è Bokonon? Si tratta di una religione inventata, proprio spudoratamente inventata a tavolino, da un uomo normalissimo che, assunti i panni del santone per incanalare l'energia della povera gente in una religione consolatoria e piena d'amore per il prossimo, che facesse loro dimenticare il Paese disastrato in cui vivevano, prese appunto il nome di Bokonon e sparì dalla circolazione. Vonnegut con questa religione fa una critica alle religioni tutte, oppio dei popoli, anche se questo culto è diverso: Bokonon stesso rivela, nei suoi libri, che tutto ciò che è scritto sono foma, panzane. Eppure più il lettore apprende gli insegnamenti di Bokonon più li trova veri, profondi e significativi. Quindi una religione che si manifesta come falsa e invece si percepisce come verità? Sempre più complicato...
E c'è anche la culla del gatto, non dimentichiamocene. La culla del gatto che, ad un gatto nella cesta, non assomiglia proprio per niente. La culla, o cesta, del gatto diventa all'interno del romanzo una metafora per qualcosa che si dice, a cui si finge di credere, che si cerca di considerare reale anche se in verità è una menzogna, anche se non esiste.

"Lo vede il gatto? La vede la cesta?"

Questa domanda è ripetuta ancora e ancora, nei capitoli centrali del libro, e funge da commento alla religione, così come alla finzione di una felicità familiare inesistente. E non bisogna dimenticarlo, è il titolo del libro. Un libro che è un coacervo di panzane; eppure riserva tanta verità...

La storia finisce male, come dicevo, ma non malissimo. In fondo è consolatoria, perché è meglio della realtà. Nel libro ciò che scatena la fine del mondo è il famigerato ghiaccio-nove del titolo italiano. (Come un titolo può dare un peso diverso al contenuto di un romanzo... Non finirò mai di dirlo) Come mai ciò accade? Non lo rivelo, non voglio fare spoiler, ma posso dire che succede per amore: nella fattispecie i tre figli di Hoenikker, ognuno in possesso di un frammento di ghiaccio-nove, hanno ceduto questo tesoro dalle complicazioni mortali a tre persone diverse...per amore. Non è in fondo bellissimo, pensare che la fine del mondo sia causata dalla stupidità umana che, pur di sentirsi amata, sarebbe disposta a pagare qualsiasi prezzo?
Già, sarebbe bello pensare che sia così. Che sia l'amore quel motore che ci fa fare pazzie, anche sbagliare. Ciononostante la vita reale non è così. La storia ci ha insegnato qualcosa di diverso e Vonnegut ce ne parla fin dalla prima pagina del romanzo. Il protagonista voleva scrivere un libro sul giorno in cui il mondo finì, che lui aveva identificato come il giorno in cui gli USA sganciarono la prima bomba nucleare su Hiroshima.
Vonnegut ci riporta quindi alla Seconda Guerra Mondiale, che è un leitmotiv di molti suoi romanzi. Non riusciva proprio a tenerla fuori dai suoi scritti la propria esperienza autobiografica... La guerra, l'esperienza sconvolgente della morte l'aveva segnato così a fondo da riversarsi poi in molti dei suoi romanzi. Impossibile non citare qui quello che è forse considerato il suo capolavoro, "Mattatoio n. 5", libro che lessi alcuni anni fa appena prima di questo e che rimane, ad oggi, uno dei libri che più mi hanno emozionato, commosso e fatto male in tanti anni di letture. Se qualcuno non l'avesse ancora letto, affrettatevi, perché non sarete più gli stessi dopo.
Questa volta l'attenzione è puntata sulla bomba nucleare, che però non è stata affatto sganciata per amore. L'uomo si elimina per ragioni molto più squallide nella realtà. Si autodistrugge perché tutti, da Oriente a Occidente, vogliono vincere a Risiko. Quindi mi piace pensare che sia consolatoria la fine dell'umanità secondo Vonnegut, che parte da San Lorenzo, un'isola dimenticata da tutti, per la stupidità e l'incapacità di un gruppetto di idioti sfortunati.
Che la fine del mondo autocausata sia inevitabile, d'altronde, lo dice anche Bokonon nel Quattordicesimo libro:

"Che speranze può nutrire un uomo ragionevole per l'umanità su questa terra, tenendo conto dell'esperienza dell'ultimo milione di anni?
Nessuna."

Mi pare che questo commento trasudi amore da tutti i pori. A questo posso solo aggiungere che il libro pullula di citazioni che vorrei condividere, tra le quali una delle più belle celebrazioni funebri che io abbia mai letto.


"Dio creò il fango.
Dio si sentiva solo.
Così Dio disse a un po' di quel fango: 'Levati a sedere!
Guarda quante cose ho fatto,' disse Dio, 'le montagne, il mare, il cielo, le stelle.'
E io ero un po' di quel fango che si levò a sedere per guardarsi intorno.
Fortunato me, fortunato fango.
Io, fango, mi levai a sedere e vidi che bel lavoro aveva fatto Dio.
Ben fatto, Dio!
Nessun altro avrebbe potuto farlo all'infuori di Te, Dio! Certamente io non avrei potuto!
Mi sento molto insignificante in confronto a Te.
L'unico modo di sentirmi un tantino più importante sarebbe di pensare a tutto il fango che non si è neppure levato a sedere per guardarsi intorno. 
Io ho avuto così tanto, e la maggior parte del fango ha così poco.
Grazie per l'onore!
E ora il fango giace di nuovo e va a dormire.
Che bei ricordi per il fango!
Quanti altri tipi interessanti di fango seduto ho conosciuto!
Ho amato ogni cosa che ho visto!
Buona notte."

Non è meraviglioso? Io vorrei che la leggessero al mio funerale, se mai qualcuno se ne ricordasse. Assolutamente commovente.

Non dico che questo romanzo debba piacere a tutti. Lo stile di Kurt Vonnegut è molto particolare, frastagliato e a tratti sconclusionato, come lo sono sempre i suoi personaggi, folli maschere grottesche dell'umanità. Molti questo stile di scrittura, fatto di capitoli cortissimi e di salti narrativi continui, non lo digeriscono proprio e non posso farne una colpa a nessuno. Però io l'ho amato tanto. Non posso dire che questo libro sia perfetto solo perché so che Vonnegut può fare ancora di più, sconvolgere ancora di più l'esistenza di un lettore. Sfiora il gradino alto, ma si ferma al secondo posto.

Chiudo con un'ultima citazione, questa amara, che mi ha fatto tanto pensare a quanti vedo attorno a me, incattiviti da una vita che non ha dato loro ciò che si aspettavano e per cui hanno faticato.

"Guardati dall'uomo che lavora sodo per imparare qualcosa, e una volta che l'ha imparato, non diventa più saggio di prima. Egli nutre un risentimento omicida per la gente ignorante che non ha dovuto faticare per la propria ignoranza."

giovedì 12 ottobre 2017

67. Maria Bellonci - Rinascimento privato




Isabella d'Este in Gonzaga. Cosa ne sapete di questa potentissima, bellissima donna del Rinascimento, che ha tenuto testa a re e papi mentre intratteneva la propria corte a suon di artisti e intellettuali, tanto da diventare un punto di riferimento per l'intera penisola italiana? Se la risposta è "Assolutamente nulla" siete in buona compagnia. Temo infatti che questo valga per un sacco di altre persone in giro per l'Italia, frutto forse di una storia studiata male (o per niente) negli anni di mezzo (la seconda media e la terza superiore, sono veramente anni bui... altro che Medioevo!) o di un taglio didattico che ancora relega le storie di vita vissuta in uno sgabuzzino e le donne potenti della storia in solaio. Io per prima sono un'esponente di questa meravigliosa casta di ignoranti che del Rinascimento italiano pensano di sapere poco e invece non sanno una mazza di niente.

Anche per questo forse esistono, grazie al cielo, gli scrittori di romanzi storici e biografie romanzate: per riempire quei vuoti, quei buchi neri che con indulgenza chiamiamo lacune, con qualche nozione calata nel quotidiano, a cui leghiamo emozioni, avventure e sconvolgimenti personali.
Io non sono un'appassionata lettrice di romanzi storici, anzi possiamo dire che non ne leggo per nulla. Sarà una certa propensione al sopracciglio alzato sviluppata a causa della lettura di alcuni autori italiani contemporanei considerati maestri del genere, come Valerio Massimo Manfredi, che secondo me è al suo meglio quando scrive fanta-storia più di quando si finge serio. (Sarò strana io e tiratemi pomodori marci, ma secondo me la saga di Alexandros è agghiacciante.) Ma sarà anche che io e la storia non siamo mai andate troppo d'accordo e l'idea di ciucciarmi il resoconto di politica, guerre e menate affini non mi attrae. Conosco un sacco di colleghe che si abbuffano di questo genere di romanzi; io sopporto la storia solo se viene raccontata in modo leggero e semplice, chiaro, con collegamenti e qualche immagine o documento storico a fare da sottofondo. Quei bei documentari pure a tratti divertenti che fa di solito la BBC, per intenderci, o il buon Alberto Angela (ma sempre a piccole dosi). Tutto questo per dire che io non solo la lettrice ideale di "Rinascimento privato".

Ho scoperto dell'esistenza di Maria Bellonci quando questo suo romanzo è giunto in casa mia. E' una bella edizione a copertina rigida e pagine patinate, dal profumo delizioso e dal peso specifico del plutonio. Un mattoncino in tutti i sensi. E' finito sulla libreria, è bello da vedere e ha fatto presto amicizia con gli altri classici italiani del Novecento. Pensavo che lì sarebbe rimasto per sempre.
Questo libro non ha una gran fama. L'anno scorso una mia collega lo stava leggendo per la sua Reading Challenge con lo sguardo da condannato a morte e questo non mi ha dato buoni auspici. La mia compara di letture, proprietaria del libro in questione, desiderava segretamente leggerlo da anni ma non trovava la forza morale di iniziarlo per paura del peso specifico della lettura, e lei legge dai 6 ai 10 libri al mese. Anche questo non faceva prevedere meraviglie. Poi il gruppo di lettura l'ha scelto come libro per l'estate. E quindi quando tocca tocca.

Devo dire che sono contenta di essere stata costretta a leggerlo. Di mio non l'avrei mai fatto e posso dire che non è stata un'esperienza traumatica quanto mi sarei aspettata. Basta prenderlo con lo spirito giusto.
Maria Bellonci in questo libro ci racconta la vita di Isabella d'Este facendola parlare in prima persona, come un diario, o meglio una memoria: Isabella ormai anziana che si racconta, ripercorrendo le tappe più importanti della sua vita a partire dalla sua infanzia in quel di Ferrara, la sua vita da duchessa di Mantova, le gioie e i dolori che questo le ha riservato, i suoi figli, i viaggi e gli intrighi politici. Tutto però con un taglio più emotivo, più personale, intimo, meno attenzione per la scena politica vera e propria, per gli sconvolgimenti che cambiavano volto alla penisola italiana, e più per quegli avvenimenti che hanno in qualche modo segnato un punto di svolta nella sua vita. Secondo Maria Bellonci, ovviamente.

Maria Bellonci non è la prima cretina che passa. Ha dedicato la vita a studiare in archivi storici, in particolare la famiglia dei Gonzaga, di cui Isabella diventa un membro centrale sposando Francesco Gonzaga. "Rinascimento privato" è l'ultimo libro della Bellonci cronologicamente parlando che vede come protagonista questa famiglia e gli altri famosi esponenti del Rinascimento italiano. Il suo primo lavoro racconta la vita di Lucrezia Borgia, altra donna potentissima contemporanea di Isabella e sua acerrima nemica da molti punti di vista. Sarebbe interessante leggere anche quello per vedere come l'autrice sia riuscita a passare da una all'altra e come nel tempo il modo di rappresentare quel mondo sia cambiato.
C'è chi dice (ad esempio Antonella) che non abbia fatto un gran lavoro di ricostruzione del personaggio in questo libro. Io non posso giudicare, perché non ne so una mazzafionda di nulla, ma posso dire che a mio avviso è un buon romanzo. Buono, ma non ottimo.

La prima problematica è sicuramente lo stile narrativo. La Bellonci voleva probabilmente ricalcare un lessico arcaico, una parlata antica, per farci immedesimare meglio nel personaggio, per rendere il tutto più realistico. Io capisco il trucco e sono in grado di reggerlo per 551 pagine, ma il mondo non è come me. Capisco che per molti questo è un primo scoglio a tratti insormontabile.
Il secondo problema è che la buona Isabella (e quindi la Bellonci) fa riferimento che leggerezza e facilità a una lunga serie di personaggi ed eventi storici importantissimi. Com'è giusto. Si riferisce a fratelli, cognate e teste coronate d'Europa chiamandoli per nome, dimenticandosi a volte il titolo. Com'è naturale. Dà per scontato che si sappia l'esito di una determinata guerra o le conseguenze di un certo trattato. Com'è assolutamente credibile. Il problema è che io questo cose non le so. Dopo una decina di pagine stavo già schiumando. Perché io sono quel tipo di lettore psicopatico che, se l'autore fa dei riferimenti storici/biografici e io non so di cosa sta parlando vado a cercare su internet, su un'enciclopedia, vado a leggermi tutto ciò che bisognerebbe sapere in merito e poi torno al libro, rinfrancata. Questo approccio, sicuramente patologico, è impossibile con la signora Bellonci. Mi sono dunque trovata ad un bivio: o mollo la lettura o me ne sbatto dei riferimenti storici e leggo senza cercare nulla. Ha vinto questa linea di pensiero e devo dire che, per magia, il libro ha iniziato a volare.
L'ultimo appunto che devo fare alla Bellonci è di aver utilizzato un espediente per giustificare questo tuffo nel passato da parte di Isabella (e darci uno sguardo esterno sulle vicende, anche se non veramente oggettivo) che per me non ha funzionato per nulla. L'autrice immagina che nel corso della sua vita Isabella abbia conosciuto un personaggio inventato, un prete, che poi ha continuato a scriverle per tutta la sua vita, alternando lodi sperticate alla sua bellezza (ricordiamo che Isabella d'Este è stata un po' il sex symbol di Italia in quel periodo) a consigli, brevi riassunti di eventi politici in giro per l'Europa e commenti sul suo magnifico operato.

Sex symbol italico, annata Quattrocento

Per me questa presenza costante nella vita di Isabella è stata soltanto un disturbo, l'equivalente della zanzara nell'orecchio mentre dormi. Sì, per carità, ha aiutato a porre nella giusta sincronia vari eventi storici, ma per la maggior parte del tempo non fa altro che gonfiare l'ego di Isabella con elogi folli, come se questa ne avesse bisogno. Una donna così timida e insicura. Tsk.

Invece ciò che ho apprezzato è la carrellata di Rinascimento che questo romanzo porta con sé. Mi ha aiutato tantissimo a collocare personaggi storici, artisti, intellettuali e la costruzione e creazione di monumenti, palazzi e opere d'arte. Un po' forse Maria Bellonci voleva fare la sborona, mostrandoci quanti nomi celebri riusciva a inserire, ma per me è stato bellissimo, quasi una rivelazione. La struttura della scuola, la divisione netta tra materie, la non sincronicità dei programmi spesso impedisce questa ricostruzione del periodo storico; con questo romanzo sono riuscita a rimettere insieme i pezzi ed è stato bellissimo. Inoltre ho scoperto cose bellissime su Pico della Mirandola che Wikipedia non dice ma la sua tomba sì. Andate e documentatevi, o LGBT+.
Scherzi a parte, credo che sia questo il maggior pregio del libro: sottolineare la centralità di una figura femminile in un periodo in cui le donne, per lo più, erano fattrici e merce di scambio, relegabili in caso contrario al convento, mentre ci insegna che attorno a queste corti c'era un mondo di arte, letteratura e politica, profondamente compenetrato.

Per quanto riguarda poi il mio giudizio personale sul personaggio così conosciuto, attraverso le pagine di "Rinascimento privato", posso ammettere candidamente che io Isabella l'ho odiata e l'avrei affogata in un pozzo al primo capitolo. L'ho trovata una donna egocentrica, ipocrita e volubile, anche se dotata di grande coraggio e di una caparbietà notevoli che le hanno permesso di tenere testa a imperatori e papi. Sarà stata una brava politicante, ma appare come una madre orribile, innamorata del primogenito maschio Federico, un cretino imbarazzante che grazie a dio ho scoperto essere morto soltanto un paio d'anni dopo la madre, e assolutamente fredda e a tratti sprezzante nei confronti degli altri, in particolare della figlia più grande, Eleonora, ma anche della sorella Beatrice. Un filo maschilista, la donna più potente d'Italia. A volte ho sentito anche poco credibili certi eccessi nella personalità di Isabella; posso solo dire che se fossi vissuta a quei tempi l'avrei trovata una donna di una freddezza e di una boriosità intollerabili e non mi sarei stupita nel vedere tanti uomini pendere dalle sue gonne (si sa che avvenenza fisica e modi da madre chioccia ai maschi italici piacciono, checché ne dicano) mentre non riusciva a tenersi un'amica cara di sesso femminile. Persino la sua carissima Elisabetta, quasi una sorella a suo dire, non sembra poi esserle così tanto affezionata...
Bisogna d'altronde ricordare che siamo nel primo Rinascimento e il concetto di rapporto uomo-donna, così come i rapporti umani in genere, era molto diverso da quello a cui siamo abituati oggi. Questo per spezzare una lancia in difesa della ricostruzione della Bellonci, che di certo non voleva né sminuire né rendere antipatica la povera Isabella. Per primeggiare in quel mondo non credo abbia avuto alternative. Ciononostante è stato divertente leggere, alla fine del libro, il commento caustico di Pietro Aretino, che la definì nei suoi ultimi anni di vita una donna "vecchia con i denti falsi e il viso imbellettato". A sentire la bella Isabella raccontare pensavo fosse un vampiro e dimostrasse massimo 40 anni, invece era una vecchiaccia pure lei.

Isabella d'Este modello vecchiaccia

Nel complesso posso dire che il romanzo mi ha a tratti appassionato e a tratti annoiato, ma che sul finale avrei voluto saperne di più della famiglia Gonzaga, tanto che sono andata a leggermi che fine ha fatto ciascun personaggio. Non è il mio genere di romanzo e non lo sarà mai, ma è stata una lettura interessante e sono contenta di averla portata a termine. Ho accarezzato anche l'idea di provare un altro libro dell'autrice, "Tu vipera gentile", di cui si parla tanto nell'introduzione a "Rinascimento privato" e che ho scoperto di possedere tra i libri ereditati insieme alla casa dei nonni. Purtroppo avevo troppi libri in attesa per dar seguito a questa pulsione insana e mi sa che "Tu vipera gentile" rimarrà sul suo scaffale a prendere polvere per molto, molto tempo...
Consigliato? Non saprei. Dipende dalla passione per la storia e le ricostruzioni storiche in genere, oltre a un buon livello lessicale. Però ha vinto il premio Strega nel 1986. Diamole una chance.

Ma soprattutto... Com'è che non ci siamo estinti per la sifilide?!? Domanda che rimarrà, ahimé, insoluta...