sabato 30 aprile 2016

10. John Steinbeck - Uomini e topi

Più riguardo a Uomini e topiCi sono libri che tutti conoscono, almeno per sentito dire. Ci sono romanzi e autori che vanno letti: per conoscenza, per cultura generale, perché fanno parte del patrimonio letterario della nostra società. Steinbeck è senza dubbio uno di questi e quando il gruppo di lettura ha scelto di affrontarne la lettura ne sono stata contenta. E allo stesso tempo un brivido mi è sceso giù per la schiena.
Leggere opere come questa è uno dei motivi principali per cui ho così fortemente voluto che si formasse un gruppo di lettura dedicato ai classici. Ho grandi lacune in merito e questo mi ha spesso fatto sentire in imbarazzo. Steinbeck è un autore che purtroppo non si studia a scuola né all'università, a meno che non si scelga di sostenere un esame in letteratura nordamericana. Eppure è inaccettabile non averne mai letto qualcosa, soprattutto per chi, come me, fa dell'inglese, e della cultura ad esso legata di conseguenza, la propria professione.
Tuttavia ci sono autori che ho temuto e temo, forse per pregiudizio che non per reale difficoltà di lettura.

"Uomini e topi" è un romanzo duro, drammatico, non facile da digerire; eppure è breve, scritto in modo scorrevole e dinamico. Personalmente, l'ho letto in tre giorni, sorpresa da quanto velocemente le pagine volassero e con crescente ansia, prevedendo un finale tutt'altro che lieto.
Alla fine devo dire che ho capito perché questo è considerato un grande romanzo, sono contenta di averlo letto e ritengo sia davvero ben scritto, ma non posso dire che mi sia piaciuto. Nessuno credo possa affermare una cosa simile, perché la povertà e la drammaticità della condizione umana in esso descritta non può piacere. Ci sono momenti tra le pagine che sono un pugno nello stomaco, ci sono scene che mi hanno fatto stringere i denti, che mi hanno fatto pensare di chiudere il libro e metterlo via, perché non volevo leggere oltre, perché era disturbante. Ma non è forse parte della finalità della grande letteratura essere disturbante, mostrare qualcosa che si nasconde nelle pieghe dell'animo umano e che spesso preferiremmo ignorare? Questo "Uomini e topi" lo fa benissimo.

Il curioso titolo deriva da una poesia del poeta scozzese Robert Burns, "To a mouse" ("A un topo").

"The best laid schemes o' mice an' men / Gang aft agley"
(I piani meglio architettati di topi e uomini / vanno spesso a finir male)

E' un peccato che il libro non riporti questa citazione, magari in apertura, perché dà una visione molto più chiara del tema fondamentale del romanzo: i sogni spezzati, i desideri irrealizzabili, la ricerca di una felicità inafferrabile. 
Steinbeck scrive in un periodo molto delicato della storia americana, vale a dire subito dopo la Grande Depressione. Nel '29 l'America si era svegliata dai sogni di ricchezza e dovette fare i conti con una crisi economica drammatica, che spinse migliaia di persone in condizioni di estrema povertà a spostarsi da una parte all'altra della nazione alla ricerca di un lavoro e del sostentamento minimo per sopravvivere. Le fasce più colpite della società furono quelle legate all'agricoltura, innanzitutto perché la sovraproduzione agricola del primo dopoguerra aveva influito non poco sulla crisi. Inoltre dal 1931 al 1939 gran parte dei territori dediti alle colture furono piagati dal fenomeno conosciuto come Dust Bowl, vale a dire un impressionante susseguirsi di tempeste di sabbia, causate da metodi agricoli inadeguati che avevano impoverito il terreno uniti a una fortissima siccità.
I protagonisti di questo romanzo, George e Lennie, sono proprio due braccianti, due uomini soli che vivono in California e si mantengono passando da un ranch all'altro in cerca di lavoro. Il termine giusto per descriverli è "hobo", vagabondi, senzatetto che migrano per il Paese in cerca di fortuna lavorativa. George e Lennie hanno un sogno, che coltivano insieme e che motiva tutto il loro faticare nei campi: quello di essere un giorno indipendenti, possedere un terreno proprio e una casa e non dover più lavorare sotto padrone, elemosinando un lavoro e un tetto per la notte.

Come ho già detto in precedenza, i sogni e il loro crollo sono il tema portante del romanzo. Quasi tutti i personaggi hanno nel cuore un desiderio e lo manifestano nel corso della storia. Il fato però non permette loro di ottenere ciò che vorrebbero, nonostante tutti i loro sforzi.
Altro tema portante è la solitudine. La maggior parte dei personaggi sono soli, solitari, e viene ribadito più volte come sia strano che George e Lennie, due uomini nemmeno parenti tra loro, abbiano deciso di viaggiare insieme. Eppure questi sono gli stessi uomini che dichiarano come la solitudine porti alla pazzia. All'interno delle vicende c'è un continuo movimento a fisarmonica di avvicinamento e allontanamento, persone che si cercano e non si trovano, che si uniscono ma che poi si separano di nuovo, ognuno ripiegato su se stesso.
Il personaggio che più mi ha colpito, e che in parte si sgancia da queste dinamiche, è Slim, l'uomo a capo dei lavoranti e che tutti, animali e uomini, stimano e riconoscono come leader non per la sua posizione sociale, ma per professionalità ed esperienza. Un uomo che questo ruolo se l'è guadagnato. Mi sarei aspettata un uomo duro, usurato dal lavoro e dalla necessità di mantenere il proprio ruolo; invece Steinbeck descrive un uomo tranquillo, quasi dolce, capace di ascoltare, di osservare e di comprendere profondamente gli altri, rispettandoli. L'incarnazione dell'autorevolezza. Una delle pochissime figure positive, a mio avviso, del romanzo.

Lo stile narrativo è particolarmente dinamico perché l'autore aveva inizialmente pensato questo racconto come un testo teatrale e in effetti si presta bene all'interpretazione, con le ridottissime parti descrittive e i dialoghi vivaci, a botta e risposta. Anche la scena è molto statica, con pochi cambi di ambientazione.
Non avendo letto altro di Steinbeck non posso sapere se questo modo di narrare si ritrovi anche nelle altre opere, ma nel caso specifico la scrittura mi ha colpito in modo positivo.

Scritto nel 1937, in Italia è arrivato in traduzione di Cesare Pavese. Io stessa l'ho letto in questa versione e, per quanto sia stato interessante vedere un nostro grande autore in una veste diversa, trovo che l'opera non sia perfetta. Al di là di termini oggi desueti e un linguaggio genericamente datato, alcuni passi parevano un po' meccanici e lasciavano un tantino a desiderare... Sorry, Cesare, ma ti vogliamo bene lo stesso!

Probabilmente dovremmo tutti dedicare un momento della nostra vita alla riscoperta di questo autore e dell'America sofferente da lui descritta. Questo libro ha una profondità e un'aura di dolore notevoli, quindi forse non è una lettura da periodo depresso; non è certo un libro facile, ma è vero, realistico e intenso.

domenica 24 aprile 2016

Il commissario Duca Lamberti - Giorgio Scerbanenco

 Ho già parlato del romanzo "Venere Privata" di Giorgio Scerbanenco e di quanto mi sia piaciuto, sorprendendomi.
Al centro delle vicende è Duca Lamberti, un detective da noir americano, da hardboiled, uno di quegli uomini fascinosi in impermeabile che non ha paura di menar le mani ed infrangere qualche regola pur di far trionfare la legge. Scerbanenco ha fatto in tempo a scrivere solo quattro libri di questa serie, perché poi purtroppo è morto prematuramente, con almeno un paio di trame già imbastite ma non ancora messe su carta. Ebbene, potevo io trattenermi dal leggere tutta la serie, soprattutto una volta scoperto che Tenar li possedeva tutti ed era disposta a prestarmeli?

Il secondo romanzo della serie, "Traditori di tutti", è un mistero a due facce, una serie di delitti nella Milano degli anni '60 e, in parallelo, un dramma del passato, dei tempi della guerra. Se il precedente romanzo introduceva i protagonisti e il loro background, in questo nuovo capitolo Duca Lamberti si trova davanti ad una scelta amletica: tentare di riavere la licenza per svolgere la professione medica o mollare tutto e farsi assumere come poliziotto?
Più riguardo a Traditori di tuttiDirei che lo spoiler è piuttosto scontato... Interessante però è il modo in cui Duca guarda a queste due alternative. La prima rappresenta la sicurezza, la rispettabilità, i soldi facili e un futuro tranquillo; la seconda un mondo nuovo, privo di certezze ma denso di emozioni forti, e un futuro di ristrettezze economiche. E' una scelta che tutti noi, prima o poi, ci troviamo a compiere, quella tra ciò che è sicuro/rispettabile e ciò che ci appassiona, tra la cosa saggia e quella che ci piace. La motivazione che fa davvero pendere la bilancia da una parte invece che dall'altra, per Duca, è l'orgoglio, perché preferirebbe finire male piuttosto che calpestare le proprie idee e rinnegare ciò in cui crede. Duca si sente un novello Galilei e ritengo che questo riveli molto sul suo carattere.
Per il resto i temi si confermano forti: traffico di droga e di armi, terrorismo separatista, morti ammazzati male e persino una imenoplastica! Scerbanenco è riuscito ancora una volta a sorprendermi con la sua modernità e la schiettezza con cui affronta anche le tematiche più delicate.
Davvero toccante infine la riflessione che pervade l'intera vicenda e che si rifà al buon Cesare Beccaria: è davvero necessario che la polizia intervenga nelle guerre di regolamento dei conti tra delinquenti, o non sarebbe meglio se si lasciassero ammazzare tra di loro? E' uno sguardo disilluso, quello di Duca, che si indurisce col passare del tempo. La giustizia ufficiale non funziona, ci dice questo libro, i poco di buono hanno mille risorse per salvarsi e manipolare la legge; è dunque giusto o quantomeno accettabile che il cittadino si faccia giustizia privata? Questa è una riflessione che pervade un po' tutti i romanzi della serie e l'autore sembra propendere per il sì.

Un detective che non crede davvero nel potere della polizia, quindi. Un controsenso in termini, probabilmente, ma è questo Duca Lamberti. Tuttavia è un uomo fondamentalmente buono, un uomo che crede nella giustizia, nel pareggiare i conti, e che non sa mettere paletti né limiti, neppure per preservare se stesso e le persone che ama. Anche di questo tratta il terzo romanzo della serie, "I ragazzi del massacro".
Più riguardo a I ragazzi del massacroQuesto romanzo è piuttosto crudo e la mia amica Tenar ne è uscita davvero un po' scioccata. In effetti la trama principale è sconvolgente: all'interno di una scuola professionale serale una giovane professoressa viene trovata nuda, stuprata e massacrata di botte all'interno dell'aula dove avrebbe dovuto avere luogo la sua lezione. I colpevoli, almeno all'apparenza, sono i suoi studenti stessi, un manipolo di ragazzi problematici tra i 13 e i 20 anni.
E' una realtà difficile da mandar giù, tanto è vero che al giorno d'oggi pare impossibile pensare di pubblicare un romanzo che ponga al centro di atti così efferati dei minorenni. Non si può più dire, in Italia, che certi ragazzi, cresciuti in condizioni disagiate e senza adeguate risorse emotive e culturali, sono bombe ad orologeria pronte ad esplodere nelle mani del primo manipolatore carismatico che incontrano. Invece Scerbanenco lo racconta e non ha paura di mostrare il peggio dei quartieri poveri di Milano, la malattia, la mancanza di leggi, di controllo, ma soprattutto di amore, di reale interesse per il benessere e il futuro dei giovani. Non sono ragazzi strani, quelli descritti da Scerbanenco, mosche bianche inventate per un romanzo ma che al giorno d'oggi non possono più esistere. Con il mio lavoro li ho conosciuti, i ragazzi del massacro, ho insegnato loro inglese, ho imparato cosa vuol dire avere paura di stare in classe sola con loro, e tuttavia nasconderlo, fare in modo che non se ne accorgano, perché ogni segno di debolezza li rende ancora più pericolosi. Fare l'insegnante, in certi quartieri, in certe scuole, è un mestiere ad alto rischio per la propria incolumità.

L'ultimo romanzo della serie è "I milanesi ammazzano al sabato", inquietante e commovente ritratto di una tragedia familiare: il rapimento di una ragazza con gravi problemi mentali, che viveva sola con il vecchio padre dopo la morte della madre e della zia che si occupavano di lei. Il vero protagonista drammatico delle vicende è proprio questo pover'uomo, il signor Amanzio Berzaghi, prototipo di quel milanese da vignetta, che lavora duro tutta la vita e che mette la famiglia, l'onestà e la serietà professionale sul podio della propria realizzazione personale. E' un personaggio struggente nella sua dolcezza, un vero puro di cuore su cui il fato ha scaricato una raffica di colpi pesanti, troppo per chiunque da sopportare.
Più riguardo a I milanesi ammazzano al sabatoL'atmosfera cupa e sordida di questo romanzo, che ruota attorno ai temi della prostituzione, dello sfruttamento e della violenza ai danni dei più deboli, è un po' smorzata dalla storia d'amore tra Duca Lamberti e Livia Ussaro, protagonista del primo romanzo e figura sempre presente nelle vicende, sebbene sia spesso un po' in secondo piano. La loro storia è deliziosa, atipica ma profonda. Livia capisce Duca perfettamente; forse è l'unica a leggergli dentro davvero e ad accettarlo per quel che è, con i suoi lati taglienti e le sue ossessioni. Duca trova in Livia il rifugio da un mondo di orrori che gli toglie fiducia e voglia di combattere, in lei ricerca il calore e la passione, le emozioni che durante il giorno, nel proprio lavoro deve sopprimere, perché un poliziotto non può permettersi di sentire troppo. Sono strani, Duca e Livia, eppure sono così ben equilibrati da non poter che stare insieme.
In questo romanzo trova il culmine quella costante domanda che infesta i pensieri di Duca Lamberti: esiste davvero una giustizia? Le forze dell'ordine, la legge, sono davvero in grado di difendere i cittadini onesti e punire chi commette dei crimini o sono sempre un passo indietro, mentre la gente deve arrangiarsi per sopravvivere?

Leggere questa serie mi ha davvero soddisfatta. I libri sono ben scritti, scorrevoli, appassionanti, le trame non scontate, e il talento dell'autore fa dimenticare anche qualche problemino di coerenza e struttura narrativa. Dopo aver letto tutti e quattro i romanzi sono ancora più stupefatta dal velo di oblio che si è posato su Scerbanenco in un periodo in cui, peraltro, il giallo va molto di moda e gli autori italiani sono molto seguiti e stimati anche all'estero. La Milano di Scerbanenco è un gioiellino da riscoprire e le atmosfere di fine anni '60 hanno un gusto retrò che sa appassionare. Se ha saputo conquistare una diffidente come me, è davvero una serie che nessun amante di gialli deve farsi scappare.

martedì 19 aprile 2016

9. Doris Pilkington - Follow the Rabbit-Proof Fence

Più riguardo a Follow the Rabbit-Proof FenceScegliere un libro scritto da bianchi per i bianchi mi sarebbe parso riduttivo nell'approcciarmi all'Australia. Ho cercato quindi un libro che fosse sì scritto per i bianchi, ma per mano di chi in Australia c'era assai prima che noi Europei ne scoprissimo l'esistenza. Un libro davvero nativo.

La storia degli Aborigeni australiani non è granché conosciuta. Io stessa sono assai ignorante in merito e per anni non mi sono affatto posta il problema. In verità, pur avendo visitato l'Australia ed essendomi resa conto in prima persona della situazione drammatica in cui versa la comunità indigena, non mi sono mai documentata.
Poi ho visto la locandina di un film su un libro di scuola e mi ha incuriosita. Quando ho scoperto che il film era tratto da un romanzo non ho avuto dubbi: avrei letto quel libro. Il film in questione è "Rabbit-Proof Fence" ("La generazione rubata" in italiano, perché ci piacciono le traduzioni precise) e il romanzo si intitola "Follow the Rabbit-Proof Fence" ("Barriera per conigli").
Non è un libro facile da trovare in Italia e io, leggendo l'originale, ho dovuto ordinarlo su intenet.

In generale l'ho trovato un libricino davvero interessante. La vicenda centrale, cioè la fuga di tre ragazzine di sangue misto dal centro di rieducazione in cui erano state portate con la forza, costituisce solo il penultimo capitolo del romanzo, per un totale di una settantina di pagine circa. Ho trovato molto interessante però la decisione dell'autrice, figlia di una delle protagoniste della storia, di introdurre la vicenda con un breve viaggio nel tempo, che spazia dall'arrivo dell'uomo bianco sulle coste occidentali dell'Australia fino ai fatti di poco precedenti all'avventura delle ragazzine, che si colloca nel 1931.
Questo excursus introduttivo mi ha dato modo di collocare meglio la storia all'interno del proprio contesto temporale e geografico, oltre a darmi qualche delucidazione sulla politica adottata dall'uomo bianco nell'invasione dell'Australia e nei rapporti con gli indigeni.
Deliziosa anche la terminologia in lingua aborigena che l'autrice inserisce nella narrazione, mescolandola all'inglese, creando così un pidgin che aiuta il lettore a calarsi davvero nella situazione.

Per quanto riguarda le tematiche, le principali sono sicuramente la discriminazione razziale e la libertà a tutti i costi. Non si può non vedere come i bianchi si considerino superiori alla popolazione di colore, così come la protagonista, Molly, sia nonostante la sua giovanissima età un simbolo assoluto di libertà, che ha un valore superiore al dolore, alla paura, persino al rischio di perdere la vita.
C'è però un tema che mi ha colpito e che racchiude un sapore agrodolce: le buone intenzioni con tragiche conseguenze. La sottrazione dei minori nati da padri bianchi e madri aborigene (spesso figli di violenze sessuali, ma anche di relazioni extraconiugali con ragazze giovanissime che lavoravano al servizio delle famiglie di proprietari terrieri) era nata infatti dall'osservazione di come questi bambini fossero isolati e maltrattati dai coetanei di "pura razza" aborigena. Si era quindi pensato di togliere questi bambini alle famiglie di appartenenza per prevenire abusi nei loro confronti e per aiutarli ad integrarsi maggiormente nella società occidentale. C'era d'altronde la credenza che questa progenie mista fosse più adatta ai lavori domestici e più incline all'apprendimento dello stile di vita dei bianchi. Tutte queste intenzioni dovevano essere molto nobili nel cuore di chi le aveva maturate, ma ebbero soltanto l'effetto di creare una massa di diseredati senza più una famiglia di appartenenza, una cultura e un background a cui appoggiarsi, che non poterono realmente integrarsi con la popolazione bianca ma rimasero per sempre esclusi dalla comunità indigena e persero per sempre ogni legame con i parenti più prossimi. Una tragedia, insomma, che ebbe ricadute drammatiche sulla società intera, e basta dare un'occhiata alla condizione attuale degli aborigeni australiani per comprendere che il danno fatto è plausibilmente irreversibile.
Il simbolo che racchiude tutti questi temi è la barriera per conigli del titolo, che, oggetto nato con una finalità di esclusione e divisione, rappresenta anche la famiglia, la casa e la salvezza per le bambine in fuga; inoltre è proprio un monumento alle intenzioni fallimentari. Come racconta l'autrice, "it was a typical response by the white people to a problem of their own making. Building a fence to keep the rabbits out proved to be a futile attempt by the government of the day." Per dirlo con parole semplici, la barriera non era servita a niente, perché i conigli portati dagli europei si erano già diffusi in ogni angolo dell'Australia, e rimase soltanto l'ennesimo, futile tentativo dei bianchi di porre rimedio a un problema che essi stessi avevano causato.

Un buon esempio di come a questi bambini fosse sottratta la propria stessa essenza è rappresentato in questa breve conversazione:
“You girls can’t talk blackfulla language here, you know,” came the warning from the other side of the dorm. “You gotta forget it and talk English all the time.”
The girls were dumbfounded, they couldn’t say anything but stare at the speaker.
“That’s true,” said Martha in support. “I had to do the same. They tell everybody that when they come here and go to school for the first time.”
Molly couldn’t believe what they had just heard. “We can’t talk our old wangka, “ she whispered. “That’s awful.”
“We all know it’s awful,” Martha told them. “But we got over that,” she added calmly.
Le bambine, appena arrivate al centro di rieducazione, scoprono di dover dimenticare la propria lingua. Cosa c'è di più intimo e profondamente legato alle proprie origini della lingua madre? Per me, che sono una linguista, questo tipo di violenza psicologica non può passare inosservato.

Ci sono molti aspetti di questo libro che mi hanno colpito e che mi sono rimasti nel cuore. E' soprattutto la rappresentazione delle usanze aborigene che mi ha conquistata, perché era questo che speravo di trovare tra le pagine e l'autrice non mi ha delusa. Tra tutti i dettagli, vorrei riportare qui la struggente usanza di autoinfliggersi ferite su tutto il corpo in caso di lutto: perché il proprio dolore sia visibile anche all'esterno, e perché si sappia che, finché quei tagli non si saranno rimarginati, il lutto rimarrà vivo nel cuore di chi lo porta. Per un popolo abituato ad esporre la propria nudità senza vergogna è naturale, probabilmente, manifestare in modo così plateale la propria sofferenza. Dal mio punto di vista si tratta di un rito davvero sconvolgente e drammaticamente sublime.

Consiglio di cuore la lettura di questo libricino, perché il dramma di questo popolo non continui a passare sotto silenzio e perché si incoraggi la riscoperta di una delle culture calpestate del nostro pianeta.


mercoledì 6 aprile 2016

8. Michele Serra - Gli sdraiati

Più riguardo a Gli sdraiatiIl mestiere del genitore è difficile, si sa, forse il più difficile del mondo. Eppure bisogna pur crescerli, questi pargoli, queste nuove generazioni. Qualcuno deve assumersi l'onere di sostenerli ed educarli così da farne adulti migliori.
Il romanzo di Michele Serra affronta proprio quest'argomento, il rapporto di un padre e di un figlio adolescente, sebbene la sua posizione sia quanto mai peculiare. Sicuramente ciò che narra è rappresentativo di una generazione, non solo di ragazzi, ma di genitori/padri che si sono differenziati da tutti coloro che li hanno preceduti (e non necessariamente in meglio).

Fatico a definire romanzo questo libro. La costruzione è più quella di una lettera aperta mista a un diario, in cui un padre annota le proprie riflessioni sulle quotidiane incomprensioni familiari. I capitoli, corti, privi di riferimenti temporali, sono intervallati dalla richiesta accorata da parte del padre affinché il figlio lo accompagni/accetti di andare con lui sul Colle della Nasca. Una sorta di traversata simbolica che dovrebbe unirli, segnare il passaggio di consegne da una generazione alla successiva.

La prima cosa che mi ha colpito di questa storia è la completa assenza di una madre. Questo figlio abbandonato a se stesso e alle grinfie di un padre lagnoso e asfissiante nella propria assenza mi ha fatto una grande tenerezza, perché la prima sensazione che mi ha trasmesso è quella di un ragazzo profondamente solo. Un giovane che si è costruito un suo modo di agire, di gestire la propria vita, perché nessuno gli ha detto ciò che sarebbe stato bene fare, e che in cambio si ritrova un padre insicuro e presente a corrente alternata che riesce solo a dirgli come e quanto sbaglia in tutto ciò che fa. Ci sono i piatti da lavare, la camera da pulire e riordinare, le vacanze da organizzare, orari comuni per pranzi, cene e sonni notturni da rispettare, ma il ragazzo non fa nessuna di queste cose e il padre si guarda bene dall'imporsi, quindi la domanda seguente nasce spontanea: dov'è la madre? Come può una donna ammettere impunemente che il proprio figlio viva in una tana senza orari, fumando sul letto e uscendo quando gli pare con non si sa chi, mentre la casa degenera nel disordine e nella sporcizia? E soprattutto perché non si impone, perché non rigira il marito/compagno come un calzino per il suo atteggiamento menefreghista e lassista? Niente, la madre non c'è. Non sappiamo se sia scappata, se sia morta, se sia stata costretta ad allontanarsi di casa o l'abbia fatto di proposito. Ciò che è certo è che questa madre manca terribilmente.

Poi c'è il padre, l'alter ego di Serra. Un uomo impegnato col lavoro ma che non si fa mancare interessi. Quello che si fa mancare è una relazione col figlio. Di lui non sa nulla. Non parlano, non c'è confidenza, non si interessa alla sua vita se non superficialmente e tutto ciò che riesce a carpire viene dalle richieste di finanziamento per lo shopping del ragazzo, che neanche a dirlo sovvenziona senza pensarci due volte. Non sia mai che qualcosa venga negato al pargoletto emotivamente e fisicamente abbandonato.
L'assenza di relazione tra i due è lampante. In una famiglia, a mio avviso, si possono costruire due tipi di dinamiche: il padre-padrone, se così vogliamo chiamarlo, che impone le regole e mantiene un distacco autoritario nei confronti dei figli, e il padre-amico, che ci parla e stringe legami e patti basati sulla confidenza e la fiducia reciproca. Nessuno dei due è di per sé totalmente positivo né totalmente negativo, ma senza estremismi possono funzionare entrambi.
Quello della storia non rientra in nessuna delle due categorie. Si dichiara contrario al vecchio concetto di genitore che impone, ma non è chiaro se abbia cercato di costruire un qualche altro tipo di rapporto col figlio. A prima vista, ciò che ha fatto è stato lavarsene le mani e defilarsi.
Ciononostante, non la smette un attimo di criticare e lamentarsi. Dice, almeno questo è ciò che sostiene, di essere contrario all'imposizione del proprio modo di pensare, dei propri valori e del proprio concetto di vita e di ordine, ma poi non fa altro che giudicare il figlio in ogni aspetto della sua vita: vestiti, abitudini quotidiane, cibo, musica, amici, passatempi. Si lamenta persino del modo in cui esprime (o no) le proprie emozioni con la mimica facciale... Decisamente se il suo scopo era quello di apparire elastico e aperto alla diversità la cosa non si percepisce.

Eppure non mi stupisco leggendo queste pagine, perché questi due stereotipi mi sono ben noti, il secondo tanto quanto il secondo. Essendo un insegnante è parte del mio lavoro guardare i ragazzi, non solo sorvegliarli e valutarli secondo le disposizioni ministeriali, ma guardare loro dentro. Su questa generazione, che Serra chiama degli sdraiati, come da titolo, avrei molte cose da dire; a volte denoto gli stessi comportamenti del fittizio figlio denunciati dall'autore, ma su altri punti non sono assolutamente d'accordo. Ciò che vorrei sottolineare qui è questo: dalle mie osservazioni i ragazzi di questa generazione
1) hanno una paura fottuta di non essere accettati, e sono disposti a qualsiasi cosa pur di esserlo; calcolando che l'ansia prestazionale e il senso di non essere abbastanza hanno le proprie radici di solito tra le mura domestiche, ho anche un sospetto piuttosto fondato che tutti questi genitori amici e aperti al confronto lo siano in verità ancor meno di quelli autoritari di una volta...
2) sono terrorizzati dal silenzio: non riescono a tacere, a rimanere in una stanza priva di chiacchiericcio, rumore di sottofondo proveniente dalla televisione, musica a palla dagli auricolari o dal computer. Cosa c'è nel silenzio che li spaventa tanto? Cosa hanno paura di sentire che nel rumore generale tace? Forse uno psicologo saprebbe rispondere a questa mia domanda in modo più professionale, quindi non azzardo conclusioni, ma è un dato di fatto: qualcosa, lì nel silenzio, c'è.
3) crescono nonostante i propri genitori: sempre più mi capita di vedere ragazzi con qualche problema di cui, una volta incontrati i genitori, non posso che pensare "Be', in fondo è sano...". A volte, come battuta, dico che questi ragazzi starebbero meglio da orfani. Ovviamente non augurerei mai una cosa simile, ma è vero che certi genitori fanno proprio di tutto per mettere i bastoni tra le ruote dei propri pargoli. Sono genitori egoisti ed egocentrici, troppo impegnati ad essere giovani per prendersi cura della prole, troppo occupati con le proprie relazioni, i propri interessi e i propri dubbi per notare che i figli hanno bisogni, domande, paure e preoccupazioni. I ragazzi si tengono tutto dentro, se la fanno passare, e si arrangiano come possono. E prendono, prendono tutto ciò che possono da questi genitori che andrebbero accuditi: fossero anche solo soldi e regali, sempre meglio che niente.
4) non sono tutti sdraiati. Sembra una banalità, forse, dirlo qui, come ultima osservazione, ma forse non è così scontato, visto che nel libro di Serra di ragazzo non sdraiato non ce n'è nemmeno uno. Eppure io ne conosco dozzine. Ragazzi che impegnano il proprio tempo in attività costruttive e che combattono per un futuro migliore, per crescere, per cambiare il mondo, per essere liberi... Ognuno ha le proprie speranze e aspirazioni, non tutti vogliono le stesse cose, ma di certo non restano sul divano vittime del consumismo e della pigrizia. Questi giovani pieni di vita, di voglia di vivere, esistono e dovrebbe essere a loro che rivolgiamo il nostro sguardo: non al peggio, ma al meglio di ciò che i nostri rinsecchiti rami sono riusciti a produrre. Andrebbero valorizzati, invece sono i ragazzi che vengono emarginati senza che nessuno se ne accorga, che vengono presi in giro e bullati senza che gli adulti li difendano, mentre per i carnefici i genitori sono sempre pronti a schierarsi.

Detto questo, sono felice di poter dire che, dal mio punto di vista, il libro si conclude positivamente. I ragazzi, in un modo o dell'altro, vanno avanti. Ce la faranno lo stesso, nonostante il mondo costruito dai vecchi, nonostante i loro padri relativisti e, in fin dei conti, inutili. Chissà che un giorno non siano anche genitori migliori di quelli che hanno avuto...

"Tra morire bene e morire male,
a parte le cause tecniche dell'evento,
la sola vera differenza è essere contenti che gli uccellini ci siano
anche quando tu non ci sei più,
oppure dolersene e invidiare ai vivi la vita."

domenica 3 aprile 2016

7. Théophile Gautier - Racconti fantastici

Più riguardo a Racconti fantasticiCi sono libri che sono una vera delusione. Si costruiscono tante aspettative da un titolo, una copertina, un'introduzione convincente, e poi tutto viene disatteso da una realtà assai più mediocre.
Questo è ciò che ho provato nel leggere i racconti di questa raccolta di Gautier.

Autore francese di metà Ottocento, si rifà pesantemente alla narrativa fantastica tedesca, in particolare E. T. A. Hoffmann, di cui era grande fan. Impossibile non notarlo: lo cita in continuazione, spesso utilizzando personaggi tratti pari pari dai suoi racconti. Solo che Hoffmann aveva stile e creatività, mentre Gautier, a mio umile parere, era carente in entrambi.

Ciò che rimane impresso al lettore di questa raccolta è il continuo avvicendarsi di storie sempre uguali, mille riscritture del medesimo canovaccio: un giovane spesso dall'animo sensibile ed artistico, spesso irrilevante per la società, riesce nel miracolo di far innamorare di sé non una donna, ma un essere soprannaturale (un fantasma, una vampira...), che lo ricopre di attenzioni e cure a sfondo sessuale prima di sparire per sempre. Un sogno erotico di passione facile, insomma, il tipo di racconto che si scrive sul proprio taccuino a scopo di intrattenimento personale nelle lunghe nottate invernali, soprattutto in età adolescenziale. Tanto è vero che le donne descritte non tengono per niente conto della psicologia femminile, non sono credibili, e le relazioni che si instaurano non hanno senso di esistere.
Ecco, forse da un autore considerato affermato mi sarei aspettata qualcosa di più...

I racconti che esulano dal tema amoroso sopra citato si possono dividere in due categorie: viaggi nonsense nelle allucinazioni del poeta in preda ai fumi della droga e varianti sul tema del doppio e dell'incontro con il diavolo. Nulla di eccitante dal mio punto di vista.

Ho fatto una fatica abnorme a finire questa raccolta, nonostante i singoli racconti siano molto brevi. Ciò che mi ammazzava più di ogni altra cosa era lo stile di Gautier: ridondante, pomposo, incline alla descrizione minuziosa di ogni singolo particolare, anche del più insignificante, senza che poi questi dettagli abbiano la minima influenza sullo svolgimento dei fatti narrati.
A questo si accompagna una costruzione narrativa che lascia parecchi buchi di trama e personaggi stereotipati e spesso irritanti.

Solo due racconti constano di un centinaio di pagine, quasi fossero mini-romanzi più che racconti: si tratta degli ultimi due della raccolta, "Avatar" e "Iettatura". Peculiarmente, sono anche i migliori. Non che si distinguano per originalità o stile; semplicemente in essi si mette in gioco qualche nuovo spunto (la metempsicosi nel primo, il malocchio nel secondo) e, godendo la storia di un maggior respiro, Gautier cerca di analizzare la psiche dei protagonisti un po' più a fondo. Con scarsi risultati, come ormai si è intuito.

Non credo che ricorderò a lungo questa lettura, se non con un senso di oppressione e di noia.
Consiglio decisamente di evitare di perdere tempo con questo libro; ci sono tanti altri fantastici autori di racconti di genere che attendono di essere letti...