venerdì 17 marzo 2017

44. Sang Ye - La danza dei vestiti

Più riguardo a La danza dei vestitiContinuando il viaggio in Cina iniziato con "La buona terra", ho deciso di leggere un curioso volumetto scovato qualche tempo fa tra i miei amati scaffali di libri usati. L'autore è Sang Ye, scrittore e giornalista di nazionalità cinese che dal 1989 vive in Australia, a Brisbane, e da lì continua a raccontare la sua terra d'origine. Lo stile di questo autore è particolare: si distingue infatti per essere un collezionista di storie; i suoi racconti non sono inventati né frutto dell'esperienza personale, quanto una riscrittura quasi parola per parola di interviste fatte a persone qualsiasi, incontrate per strada. Sang Ye riprende questo materiale, lo organizza in una sorta di monologo, cercando di mantenere lo stile del narratore, e poi lo pubblica su giornali, in saggi o raccolte. Questo è il suo modo di raccontare la Cina attraverso la voce non di un solo intellettuale o di una persona dalla vita speciale, ma dal punto di vista di centinaia di cinesi qualunque, persone diversissime con idee anche contrastanti tra loro, ma che insieme concorrono a creare un mosaico variegato il più vicino possibile alla realtà del Paese.

La raccolta "La danza dei vestiti" prende il nome dalla tematica che lega la maggior parte dei racconti: tutti partono da un oggetto, di solito un capo di vestiario, a cui si lega un ricordo, un'esperienza. La persona che lo possedeva (e che poi l'ha ceduto o venduto a Sang Ye, che di questi oggetti fa collezione) narra un episodio della propria vita, il periodo storico a cui fa riferimento, descrive la collocazione geografica e la situazione sociale che ne ha fatto da sfondo, e spiega al lettore perché quell'oggetto è stato conservato per anni, a volte gelosamente, cosa esso rappresentava, che importanza ha giocato nella sua vita.
Per me che ho l'anima del collector, cioè di chi non butterebbe via mai nulla nella folle convinzione che tutto possa tornare utile o essere riutilizzato, io che investo emotivamente anche nei biglietti del treno e nei pass del campeggio, dicevo, per me questo argomento è seducente. Il pensiero che un uomo possa tenere per 40 anni un sigillo, una camiciola o un telefono non mi sorprende affatto; anzi, mi scalda il cuore. Quindi questo libricino mi ha conquistato quasi subito.

Nonostante sia stato pubblicato nella traduzione italiana soltanto nel 2007, le interviste che compongono "La danza dei vestiti" risalgono agli anni '90. Insomma, sono un po' passatelle... Ma tutti i ricordi si riferiscono a parecchi anni prima, tra la Liberazione, cioè quando i comunisti prendono il potere nel 1949, e la fine della Rivoluzione Culturale, quel movimento voluto da Mao che affossò per una decina di anni il mondo culturale cinese, tra il 1967 e il 1976 circa.
Ohibò, direte ora voi, quali incredibili conoscenze di storia possiede codesta donna! E io invece non ne so nulla, la storia della Cina non l'abbiamo mai studiata a scuola, e poi agli anni '60 manco ci siamo arrivati in quinta superiore... Come potrò mai io comprendere tale libro?
Ecco, ci tengo a chiarire questo punto: io di storia cinese non so una mazza di niente, o meglio, inizio a imparare qualcosa leggendo questi libri. Invece devo ringraziare le edizioni e/o e nella fattispecie Maria Gottardo e Monica Morzenti, vale a dire le traduttrici di questo libro, per avere aggiunto un'introduzione esplicativa del periodo storico in questione e di chi fossero i personaggi politici citati più volte nei racconti. Senza il loro aiuto non ne sarei mai venuta a capo...

Non essendo un romanzo è un po' difficile trovare un modo per parlare di questo libro. Ogni narratore fa un po' a sé, quasi come in un reportage, e ognuno ha una vita slegata dalle altre da raccontare. Ciò che posso dire è cosa mi ha colpito maggiormente.

La prima cosa che mi viene in mente è l'amarezza per la vita degli intellettuali in Cina durante il periodo della rivoluzione. Proprio per la loro cultura, la loro apertura al mondo, questi furono percepiti come persone "reazionarie", che in qualche modo si credevano superiori e per questo avrebbero osteggiato la rivoluzione comunista. Che questo sia stato una realtà o meno (è innegabile che gruppi di intellettuali si opposero ai piani di Mao, ma forse anche con cognizione di causa...), il trattamento che queste persone subirono fu doloroso: buttati fuori da laboratori, scuole e uffici in cui lavoravano, furono mandati nei campi a lavorare come contadini, svolgendo i lavori più umili in condizioni igieniche precarie e vivendo in povertà assoluta, così da "rieducarli". Si crearono persino campi di lavoro appositi, chiamate "Scuola 7 maggio", dove i funzionari dovevano essere riportati sulla retta via. Pare, dalle testimonianze raccolte, che questi non fossero altro che luoghi di sopraffazione giornaliera, dove operai in forza alle fila del partito che avevano ricevuto torti (almeno a loro parere...) da parte dei funzionari o che semplicemente negli anni si erano sentiti svantaggiati, in posizione subordinata a causa della mancata istruzione o altro, si vendicavano sui malcapitati arrivando persino alle torture. Di tutto ciò non si parla davvero nel racconto che li cita ("102 biglietti ferroviari"), ma si percepisce il dolore di aver subito un'ingiustizia che ha stravolto loro l'esistenza.
Mi ha fatto tanto pensare, perché l'unica colpa che avevano la maggior parte di queste persone era di amare lo studio e di aver potuto, chi grazie alla famiglia benestante e chi con tanti sacrifici, ottenere un titolo e di conseguenza perseguire una carriera. Io, un'insegnante di liceo, per di più di lingua straniera, sarei stata presa di mira quasi sicuramente. E al giorno d'oggi, in un mondo che svaluta sempre più il valore del titolo di studio parificando e appianando le differenze di preparazione, arrivando a negare persino il valore della scienza in virtù di complotti e scuole di vita vera, rivedo quell'odio figlio dell'invidia, dell'ignoranza, e un po' mi fa paura. Perché ad un certo punto persino Mao si accorse che senza intellettuali il Paese si sarebbe arenato inevitabilmente.

Un'altra categoria di perseguitati che mi ha impietosito molto sono i borghesi presenti in Cina durante la rivoluzione comunista. Che colpa ha una ragazzina a malapena adolescente di essere nata in una famiglia mediamente agiata? Che male ha fatto al Paese, ai suoi connazionali e al popolo? Dove sta la volontà personale? Di tutto ciò non si parla mai perché al popolo inferocito la verità e la giustizia non interessano. Ciò che conta è far scorrere il sangue, che qualcuno paghi, che stia male quanto pensiamo di aver sofferto noi.
In "Sarà un boccone amaro anche in una vita futura" una donna racconta dell'espropriazione subita dalla propria famiglia. Accadde nel 1966, lei aveva 15 anni e con lei fu preso di mira il padre. A compiere il dovere di requisire i beni della famiglia fu la "Squadra delle Guardie Rosse maoiste", che altro non erano che un gruppo di ragazzine adolescenti guidate da una donna analfabeta e meschina. I borghesi venivano espropriati dall'oggi al domani, attraverso un'azione di polizia: interrogati, picchiati selvaggiamente e poi arrestati o, nella migliore delle ipotesi, abbandonati a se stessi, senza un soldo né un vestito né un tetto a cui far ritorno. La donna racconta che all'epoca lei e il padre si nascosero nel magazzino della casa, che era sì stato sigillato, ma che era anche il posto più umile e malridotto. Lì nel giro di meno di un anno il padre trovò la morte, prostrato da una malattia cardiovascolare che non poteva più tenere sotto controllo, perché ai borghesi non era permesso essere curati negli ospedali né ricevere medicinali. La donna ricorda anche questo dolore, la disperazione con cui cercò di salvare suo padre senza riuscirci, la sofferenza di sentirlo spirare tra le proprie braccia dopo l'ennesimo scorno della responsabile del partito, che negava persino che la sua fosse vera malattia.
La donna dovette poi andare a lavorare in fabbrica per otto anni, in modo da rieducarsi e diventare una brava comunista, vivendo da sola in condizioni inumane e percorrendo ogni giorno a piedi 30 chilometri per raggiungere il posto di lavoro. Tutto ciò è raccontato con reale dolore, ma non solo: la rabbia, l'astio, la sete di vendetta della narratrice è tanta, perché come ripete più volte per questi delitti non ha mai pagato nessuno e lei non può perdonare.

Non è l'unica a ritornare su questo punto, quello delle crudeltà e delle morti causate dalle decisioni del partito per cui nessuno è mai stato processato, accusato, tanto meno condannato. Altri racconti parlano di persone uccise per capriccio, quasi, risorse immense sprecate per far bella figura o accontentare un rappresentante politico di alto livello che, nella sua ignoranza, chiedeva di fare imprese impossibili o altamente dispendiose e inutili. E' questa una delle ombre che pesa su molte delle storie, un senso di inconcluso, anche a distanza di decenni dai fatti, come se non si fosse mai messa la parola fine su ciò che è stato perché le autorità non ne hanno mai voluto prendere coscienza e ammettere di aver sbagliato. E' un'eredità pesante da portare che, come tutte le ferite non sanate, nel tempo creerà una voragine interna al Paese nutrita di rancore e diffidenza di cui già oggi vediamo alcune conseguenze.

Una cosa che mi ha colpito positivamente, invece, è la forza di carattere che mostrano alcuni dei narratori, un coraggio di dire la propria opinione senza troppi giri di parole, anzi utilizzando un'ironia tagliente e davvero accattivante. La critica che si percepisce nei confronti degli eventi dei decenni dal '50 alla fine degli anni '70 è forte e quasi affatto celata. Consiglio la lettura del racconto "Il vestito dell'imperatrice" per averne un assaggio lampante.

Infine il tema forse principale della raccolta: quello dell'abbigliamento, appunto. Io ho un rapporto non felicissimo con la moda, l'apparenza e i dettami nell'abbigliamento. Anzi, direi che sono proprio insofferente alle imposizioni di uniformi e vestiti standardizzati, perché a me quello che decidono gli altri di solito fa abbastanza schifo e mi sta pure male. Odio il concetto di fashion, di adattarsi a ciò che qualcun altro ha deciso essere trendy e odio spendere soldi per vestiti che manco mi piacciono. Soprattutto odio il concetto di bella presenza. Non so, sarà che come donna non rappresentativa della bellezza canonica e poco interessata all'apparenza ho sempre investito molto nel mio cervello e trascurato il guscio, esasperando perfino questa dicotomia. Oppure sarà che sono un po' strana io, però questa faccenda delle uniformi mi colpisce molto.
La rivoluzione di Mao non fu soltanto nelle teste, nell'organizzazione sociale, nella cultura: il deciso cambiamento nell'abbigliamento fu parte integrante dell'operazione di marketing politico. Il mondo cinese, che fino ad allora aveva vestito i propri panni tradizionali, si uniformò in un unico mondo di blu, verde e grigio, i colori delle tute tipiche del partito comunista. Conformismo, sempre, a ogni costo, l'annullamento della libertà individuale sottolineato dalla soppressione di qualsiasi espressione estetica personale.
Tuttavia, proprio perché in verità in Cina si susseguirono movimenti, leader diversi, alleanze, altrettanto rapidamente cambiava la moda. Non nelle grandi cose, ma nei dettagli: un colletto alla Mao piuttosto che alla Lenin, un vestito tradizionale da donna come il qipao messo al bando per imitare lo stile della first lady Jiang Qing e poi riportato in auge. Tutto ciò mentre la gente in Cina stentava a mangiare tutti i giorni e le possibilità di comprare vestiti nuovi era alquanto remota.
Non mi ero mai fermata molto a pensare quanto anche l'abbigliamento, quando è imposto, sia un modo per controllare le persone. Sinceramente leggerne il racconto dalle labbra di chi ha vissuto quel periodo non ha fatto altro che inasprire il mio rifiuto per quel genere di uniformità. E mi commuove un po' il pensiero che qualcuno abbia conservato con amore, per tanti anni, una camicia pur sapendo che non l'avrebbe mai più indossata, solo perché era un ultimo frammento di un mondo antico che rapidamente spariva per non ritornare più. La Cina di oggi non ha più niente a che fare con quella di inizio '900.

Insomma, "La danza dei vestiti" non è un libro che cambia la vita, che faccia gridare al genio o a premi internazionali, ma è uno scorcio inusuale sul periodo maoista cinese e lo stile particolare dell'autore lo rende agile, ricco, vario e mai noioso. Io lo consiglio sicuramente a chi voglia leggere qualcosa sulla Cina del secolo appena trascorso da un punto di vista alternativo e scritto in maniera semplice e sintetica.

sabato 11 marzo 2017

42/43. Amélie Nothomb - Diario di Rondine + Barbablù

Nelle scorse settimane ho fatto una mini-scorpacciata di Amélie Nothomb. Scrittrice che io amo molto e che mi affascina con la sua capacità di usare il linguaggio in modo schietto e poetico a un tempo, ho imparato ad amarla leggendo due dei suoi romanzi più famosi e, a mio modesto parere, i migliori: "Metafisica dei tubi" e "Stupore e tremori". Entrambe opere dal carattere fortemente autobiografico, ci permettono di entrare un po' più a fondo nella mente di questa scrittrice straordinaria, così colta e anticonformista, figlia di un mix di culture diversissime e spesso in contrasto tra cui spiccano il Giappone e il Belgio, rispettivamente il Paese in cui ha trascorso parte dell'infanzia e la sua terra d'origine.
Non si può negare che i libri di Amélie Nothomb siano parecchio strani, a volte sopra le righe, ma è proprio questo che me la fa amare: qualsiasi cosa scriva, in qualche modo mi cattura e non mi delude mai. Sarà che non so mai cosa aspettarmi...

Una delle sue tematiche forti è la morte e leggendo un po' della sua produzione ho notato che sembra provare una certa attrazione per gli assassini e i serial killer. Anche queste due opere, "Diario di Rondine" e "Barbablù", trattano di uomini che uccidono, ma in modo completamente diverso.

"Diario di Rondine" è la storia di un giovane fattorino che, in seguito a una delusione amorosa, non resiste al dolore e sceglie di spegnere le proprie risposte emotive. La genialità della Nothomb appare immediatamente: come si fa infatti a spegnere le proprie sensazioni? Semplice. C'è un interruttore dentro di noi. Sposti l'interruttore su "off" ed il gioco è fatto. Voilà. Il problema è che poi non torna più a posto così facilmente e l'assenza di emozioni porta a una deprivazione sensoriale intollerabile.
Il protagonista scopre di non riuscire più a provare piacere se non avendo esperienze completamente nuove. Così, complice il suo talento per le armi da fuoco, scopre l'immenso godimento che gli dà uccidere gente del tutto sconosciuta. Il passo successivo è quindi facile: diventare un serial killer, o meglio un sicario, un killer professionista.
Non dirò nulla né sul significato del titolo (posso solo anticipare che Rondine è da considerarsi un nome proprio e non si riferisce al protagonista) né sullo sviluppo della trama in sé. Non è uno dei libri più belli dell'autrice ma come al solito è riuscita a rapirmi. La sua esplorazione della mente di uno psicopatico - perché chi non prova emozioni lo è a tutti gli effetti - ha una tale disumanità da farci dubitare della sanità mentale della scrittrice stessa. Devo dire la verità, ho pensato spesso che Amélie Nothomb sia il genere di persona che adoro leggere ma non vorrei mai avere in giro per casa...

Invece di questo libro voglio regalare l'incipit, perché già da queste poche righe si può cogliere la potenza della sua scrittura e l'originalità delle sue idee. Quella che segue è la descrizione, secondo Amélie Nothomb, del risveglio dal sonno.

Ti risvegli al buio nella più assoluta incoscienza. Dove sono, che cosa è successo? Per un istante la memoria è cancellata. Non capisci più se sei un bambino o un adulto, un uomo o una donna, colpevole o innocente. Le tenebre sono quelle della notte o di una prigione? 
Capisci solo una cosa, e tanto più intensamente dal momento che è il tuo unico bagaglio: sei vivo. Più di così non lo sei mai stato: sei vivo e basta. In che consiste la vita all'interno di questa frazione di secondo in cui hai il raro privilegio di non avere identità?
In questo: hai paura.
Non c'è libertà più grande di questa breve amnesia del risveglio. Sei un neonato che conosce il linguaggio. Puoi assegnare un vocabolo alla scoperta senza nome della nostra nascita: sei scaraventato nel terrore della vita.

Così inquietante, sensoriale e mentale allo stesso tempo... Mi ci perdo.

Il secondo romanzo, "Barbablù", è proprio ciò che sembra: la riscrittura in chiave moderna e parecchio emancipata della storia di Barbablù, per intenderci quello che uccideva le proprie mogli quando sbirciavano nell'unica stanza della casa che era loro vietata - quella in cui teneva le mogli morte, per l'appunto.
Non credo serva dire molto di più perché già dà un'idea ben chiara di cosa aspettarsi. Invece ciò che non ci si aspetta è la capacità della Nothomb di trasformare questa favola in un approfondimento della simbologia che incarna e, allo stesso tempo, in un thriller vero e proprio.

La tematica dell'amore unito alla morte è presente in entrambi i libri, ma soprattutto in questo secondo trionfa proprio l'assurdità dell'innamoramento, che non distingue l'oggetto del proprio affetto nemmeno in presenza di un assassino, o presunto tale. Saturnine, la protagonista, una giovane forte, autonoma e senza paura, prova sulla propria pelle proprio la pazzia dell'amore: l'amore folle del Barbablù della storia, Don Elemirio Nibal y Milcar, ma anche quello che minaccia il proprio cuore e che potrebbe farla cadere tra le grinfie dell'assassino.
Ci sono molte altre tematiche interessanti, impossibile elencarle tutte. Una delle mie preferite è stata l'analisi del parallelismo tra la fiaba di Barbablù e la creazione dell'uomo nella Bibbia. In entrambi i casi abbiamo un maschio potente che dice di amare con tutto il cuore la moglie o la propria creatura. Questi viene posto in una dimora bellissima, in cui può trovare tutto ciò di cui ha bisogno, sia essa un castello o il giardino Eden, ma a una condizione: di non superare mai un limite, di non infrangere l'unica proibizione imposta. La stanza di Barbablù è il frutto dell'albero del bene e del male, e la creatura umana, tentata dalla curiosità o dal timore, dal bisogno di sapere e superare il limite, cade prima o poi in errore. Il prezzo per questa trasgressione è in entrambe le storie la morte.
Questo tema è assai diffuso nella letteratura dalle origini a oggi. Tanto per citarne uno a caso potrei far riferimento alla favola di Amore e Psiche ne "L'asino d'oro" di Apuleio, che rimarca più volte come Psiche cada vittima della propria curiosità al punto da perdere quasi la vita. Ciò che però mi è piaciuto della visione della Nothomb è lo spostamento dell'attenzione dalla vittima (il trasgressore) al carnefice (colui che punisce). Il desiderio di sapere è ciò che rende gli umani tali; è invece la crudeltà di chi pone il limite ma allo stesso tempo lo rende desiderabile ad essere riprovevole. Perché mettere un albero che non si può toccare nell'Eden? Perché sottolineare l'obbligo di non aprire la misteriosa stanza alla giovane moglie? Nel momento stesso in cui si pone la proibizione si prepara il momento di godimento in cui tale legge sarà infranta e il peccatore punito. Si sottolinea anche la pena smisurata in confronto all'infrazione: la morte è la privazione di ogni cosa, in primis della possibilità di fare ammenda.

Ancora una volta, tra le montagne russe mentali dell'autrice, il lettore è colpito dalla danza delle parole, dalla ricchezza sensoriale della narrazione. La vista è il senso più stimolato in questo libro, ma anche il gusto e il tatto pervadono il progredire degli eventi. Ecco, questo è forse uno dei pregi più grandi di questa scrittrice: la capacità di fare davvero appello alla totalità del corpo del lettore e dei protagonisti delle storie, andando a stimolare tutti e cinque i sensi mentre gioca con la sua mente più analitica e razionale.
Insomma, questo secondo titolo mi è piaciuto molto e lo consiglierei davvero. E se ci fosse qualcuno che ancora non conosce questa scrittrice è pregato di mettersi subito in pari e di darle una chance di farsi incantare. I suoi libri, in fondo, sono tanto brevi che il tentativo non può che valere la pena...

domenica 5 marzo 2017

41. Pearl S. Buck - La buona terra

Più riguardo a La buona terraDurante il mese di febbraio il gruppo di lettura aveva scelto di leggere "La buona terra" di Pearl S. Buck. Io di questo romanzo non avevo mai nemmeno sentito parlare, né conoscevo la scrittrice, per cui si può ben immaginare la mia sorpresa quando ho scoperto, sfogliando la biografia dell'autrice, che aveva vinto il premio Nobel per la letteratura. Sono contenta di avere incontrato sulla mia strada un altro Nobel; trovo che, per quanto in alcuni casi la scelta possa essere considerata non azzeccatissima, leggerne sia comunque stimolante.

"La buona terra" è un romanzo obiettivo, quasi alla stregua di un documentario, privo di occidentalismi, nel quale è narrata la storia di Wang Lung e della sua famiglia. Per quanto l'autrice narri tutto dal punto di vista di Wang Lung, il capofamiglia, la percezione non è esattamente quella di stare all'interno della mente di un uomo cinese di inizio XX secolo, quanto piuttosto di stargli sulla spalla e vedere, dall'esterno, questo mondo fatto di valori e usanze aliene. A mio parere la Buck è stata molto accorta a non inserire mai giudizi personali nella narrazione, per quanto in alcuni momenti, anche solo nella scelta degli episodi da presentare, la critica sociale non possa non trapelare...
Ho detto che il protagonista è un uomo di inizio '900, ma nel libro non ci sono riferimenti storici. A ben vedere, per gran parte della narrazione, il mondo descritto è talmente arretrato e misero da far pensare al Medioevo... Tuttavia si parla del treno, che i cinesi chiamavano il "carrozzone di fuoco", e che venne introdotto in Cina soltanto nel primo decennio del 1900, restringendo un po' la fascia temporale. Si parla anche di alcune rivoluzioni, ma non hanno mai un nome vero e proprio, né Wang Lung è in grado di offrirci una visione più chiara e competente di ciò che sta succedendo nel suo Paese. Anzi, ne è quasi del tutto ignaro, se non quando questa giunge a scuotere la sua placida esistenza. Essendo il libro pubblicato nel 1931, possiamo dire che la Buck ci vuole dare un'idea della vita dei contadini nella Cina orientale di inizio XX secolo.

La prima cosa che mi ha colpito di questo romanzo è il tema della memoria famigliare. Sarà che è una tematica a cui io personalmente tengo molto, ma tra queste pagine diventa ancora più rilevante. Nella fattispecie, "La buona terra" ci racconta cosa può accadere quando la memoria, per mille differenti motivi, si perde. Narrandoci generazione dopo generazione, la Buck mette in scena un processo molto comune e naturale, quello della rimozione dei ricordi dolorosi, soprattutto quando la vita pare volgere al meglio. Wang Lung parte come un povero contadino, orfano di madre e sprovvisto di fratelli che lo possano aiutare nel lavoro dei campi, ora che il padre è anziano. La sua storia inizia davvero quando prende moglie e da questa ha figli e figlie. Wang Lung e la sua famiglia vivono il lavoro duro, quello nei campi, che spacca la schiena e lascia tramortiti la sera. Non solo; essi subiscono gli effetti della carestia, quasi muoiono di fame, sono costretti a cercare fortuna e ad elemosinare per sopravvivere, in una disperata lotta per la sopravvivenza che lascia senza fiato. Poi nella loro vita tutto cambia: lentamente, grazie anche a qualche colpo di fortuna, la famiglia passa dallo stato di contadini poveri e ignoranti a quella di benestanti. E' qui, in questo momento, che il ricordo, la memoria delle privazioni, del dolore, dell'umiliazione della povertà si fa insopportabile. E allora la famiglia, semplicemente, rimuove. E' più facile avere a che fare coi ricchi e i potenti se ci si dimentica di essere stati al loro servizio, di essere stati ignoranti e bisognosi. La specie umana tende naturalmente ad adattarsi alla nuova condizione e a volte, per farlo, rinnega il proprio passato.
Io sento molto questo tema perché nella mia famiglia questo è successo. Io sono stata fortunata, ho sempre vissuto nell'agio, ma non così la famiglia di mio padre. Ebbene, in mio padre e nei miei zii io riscontro proprio questo stesso atteggiamento, che quindi a tratti comprendo e a tratti mi ferisce. Sarà che io invece ho un po' il pallino di farmi portatrice della memoria storica della nostra famiglia...
Perché, per quanto questa rimozione sia naturale, c'è un pericolo insito in essa: perdere  la memoria del proprio passato, delle proprie origini, ci rende vulnerabili, poiché finiamo per non ricordare ciò che ci ha permesso di migliorare la nostra condizione né ciò che è successo a chi, prima di noi, ha fatto il percorso inverso, perdendo tutto. La famiglia di Wang Lung parte dal nulla e arriva ad essere grande, numerosa e ricca; ciononostante non si può ignorare il parallelo con la grande famiglia Hwang, che possedeva le terre poi diventate di Wang Lung, che viveva nella casa che sarà di Wang Lung, che aveva schiavi e schiave, tra cui la moglie di Wang Lung, e che però ha finito col perdere tutto, prima di tutto l'unità e il rispetto per i propri anziani. A mio avviso l'autrice, sul finale, vuole proprio dirci questo: i figli di Wang Lung hanno dimenticato ciò che fu e si comportano come quelli della famiglia Hwang; una brutta fine non tarderà ad arrivare...

Un altro punto molto forte del romanzo è la descrizione della povertà dell'epoca, quella vera. Noi, come società, forse abbiamo un po' rimosso cosa voglia dire davvero morire di fame nella disperazione, dopo aver mangiato tutto ciò che la natura offre, compresi animali randagi ed erba dei campi. Per lo stesso processo psicologico che ci fa dimenticare i dolori passati, la nostra società ha obnubilato le sofferenze del popolo italiano durante i primi decenni del XX secolo. Oggi si legge in continuazione di famiglie che muoiono di fame, ridotte a rovistare nei bidoni, ma forse ci siamo scordati cosa voglia dire la mancanza persino dei rifiuti di qualcun altro, l'assoluta indigenza, il bisogno di tutto. Siamo fortunati, a modo nostro, perché ci sono tante associazioni di mutuo aiuto, perché i progetti di sostegno per le famiglie, anche se quasi sempre privati e non statali, sono tanti e basta cercarli un po'. Leggendo queste pagine mi veniva da ridere: e noi ci lamentiamo delle nostre difficoltà, dei nostri dolori? Con che diritto siamo costantemente scontenti, quando la dispensa è ben fornita e abbiamo più del necessario? Quale stile di vita ci accontenterebbe mai?

Sull'onda del tema della povertà la Buck insiste molto in un'aspra critica sociale. Complice il periodo storico in cui è vissuta, l'aver visto dal vivo la rivoluzione dei Boxer, la crisi americana e tante rivolte popolari in giro per il mondo, l'autrice lancia un monito: quando in una società i ricchi tendono a diventare sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri la rivoluzione è inevitabile. Lo ripete ancora e ancora nel romanzo: ad un certo punto i poveri faranno ciò che fanno i poveri quando i ricchi sono troppo ricchi. Più chiaro di così si muore. Peccato che nessuno mai ascolti queste parole, di una chiarezza e di una semplicità sconvolgenti. Invece rimaniamo intrappolati in questo circolo vizioso, nell'incapacità di affrancarci, nel voler sempre prendere il posto dei ricchi e non cercare il vero benessere globale, accontentandoci di qualche restrizione. Non che la rivoluzione comunista, che partiva in un certo senso con questo scopo, sia riuscita nel suo intento... E' proprio una tara dell'essere umano, voler sopraffare l'altro. Forse è il marcio che ci portiamo dentro.

Sarà che sono donna, ma leggere della condizione femminile in giro per il mondo oggi come allora mi lascia sempre agghiacciata. Si continua a dire che il femminismo non serve ma se ci guardiamo indietro riscopriamo cose da far gelare il sangue e allora davvero non solo serve ancora il femminismo, ma anche una condivisione della memoria (la memoria, la memoria, questo tema che ritorna...), perché tutti si ricordino ciò che hanno passato le donne in passato e quanto questo sia inaccettabile. Le figure femminili del libro hanno vite private, che noi non vediamo mai davvero; sentiamo poco le loro voci e non conosciamo i loro pensieri, ma il trattamento riservato loro è terribile. Chiuse in casa, schiave dell'uomo (le figlie venivano proprio chiamate "schiave" dal padre, per dire...), costrette a fare le serve con ritmi estenuanti mentre generano figli a ripetizione e si preoccupano di mantenersi pazienti, accomodanti ed esteticamente piacevoli per il proprio uomo. Non esiste malattia né volontà personale. La nascita di una femmina è una sventura che può peggiorare solo nel caso in cui questa sia pure brutta. Vendere le figlie era un'abitudine e così la violenza sessuale sulle schiave. Insomma, una condizione di vita che fa rimpiangere quella del bue...
La Buck si vendica un po' di tanta sopraffazione rendendo i personaggi femminili nella storia più arguti e capaci di quelli maschili. Per quanto abbiano sempre le mani legate e quindi non possano davvero agire liberamente per la propria famiglia (non parliamo di volontà personale, per la carità...), esse suggeriscono, manipolano, punzecchiano e spesso danno una svegliata ai propri uomini. O-Lan, la moglie di Wang Lung, dà prova di essere mille volte più intelligente e consapevole del marito di ciò che accade loro intorno e compie quasi tutte le scelte più dolorose; ciononostante la sua vita rimarrà fino all'ultimo un inferno...
E spicca, tra tutte queste donne, la tenera presenza della figlia muta e ritardata di Wang Lung, che nonostante la disabilità lui curerà per tutta la vita con amore, quasi fosse la sua preferita. Sapere che la scrittrice aveva avuto dal primo marito una figlia con un grave ritardo mentale ci fa guardare a questo personaggio con ancora maggior dolcezza.

In conclusione, posso dire che il romanzo mi sia piaciuto davvero tanto e mi ha dato tantissimi spunti di riflessione. Purtroppo ho scoperto che esso fa parte di una trilogia legata alla famiglia, di cui il secondo e il terzo libro non sono mai stati tradotti dall'inglese. Poco male per me, che potrò, in caso, recuperarli e leggerli in originale, ma un po' mi scoccia. Questa poca attenzione per l'informazione del lettore è uno dei punti deboli delle case editrici.
Il romanzo è coinvolgente, la scrittura agile e scorrevole come non ti aspetteresti, il ritmo ottimo e le descrizioni della Cina rurale davvero curate. Meritava il Nobel, questa scrittrice? Non saprei pronunciarmi, anche perché dovrei leggere qualche altra sua fatica prima. Ricordo che il Nobel le è stato assegnato non per questo romanzo, ma per la sua produzione in generale e come questa ha saputo ritrarre la Cina dell'epoca. Le malelingue però dicono che il premio le sia stato assegnato grazie all'ottimo lavoro di marketing del secondo marito, agente letterario... Io di certo lo consiglio e mi rimane la voglia di leggere qualcosa di cinese cinese per completarne la visita!

P.S.: Naturalmente l'autrice che mi ha ispirato il post precedente è proprio lei.

giovedì 2 marzo 2017

Il giro del mondo letterario e gli autori borderline

No, non autori con disturbi della psiche. Cioè, di quelli ce ne sarebbero un mare, perché si sa che l'arte non attira propriamente soltanto le persone sane di mente, ma ciò a cui sto pensando è tutt'altro.

Nell'intraprendere questo mio progettino di lettura internazionale, che mi sta dando delle notevoli soddisfazioni, ho inizialmente sottovalutato un aspetto che si sta proponendo sempre più insistentemente alla mia attenzione: molto spesso gli autori non parlano affatto del loro Paese d'origine. Questi sono dunque da considerarsi validi esponenti della letteratura del proprio Paese o sono più scrittori "del mondo"?
Non avevo mai considerato quanto alcuni autori si facciano voce della storia, della cultura e dei problemi della propria terra d'origine, mentre altri se ne disinteressano, almeno apparentemente, e preferiscono invece viaggiare con la fantasia in altre nazioni, altri tempi, mondi scomparsi o inventati. Ma poi, sarà davvero possibile per questi scrittori affrancarsi dalla propria cultura d'origine ed entrare pienamente nella storia e nella cultura di un'altra nazione o persino in una zona neutra, universale?
La risposta io, ovviamente, non ce l'ho; ciò che posso fare è al massimo pormi degli interrogativi e raccogliere qualche osservazione. Di per sé, visto che di solito è anche la conclusione più corretta, direi dipende.

Fino ad ora ho letto e bloggato parecchi autori che hanno fatto della propria cultura e storia l'origine fondamentale del loro scrivere. Gadda, Grazia Deledda, Scerbanenco sono solo alcuni esempi dell'italiano che racconta gli italiani, come Agota Kristof, Nagib Mahfuz, la Pilkington o Kawabata, per citarne solo un paio, ci narrano della loro terra. Probabilmente questo autori sono la maggioranza. Le mensole di casa mia traboccano di libri di autori che potrebbero essere inseriti in questa categoria e che aspettano di essere letti o sono antiche conoscenze. Da quando ho intrapreso questa piccola sfida con me stessa, quella di leggere un libro per ogni nazione del mondo, sto dando più spazio a questi scrittori, perché in qualche modo mi pare che i loro libri siano più significativi nel mio incontro con l'altro.

Alcuni autori però mi hanno sorpresa o perplessa. Alcuni scrivono del loro Paese d'origine ma dando un'occhiata alla loro biografia si scopre che non ci vivono e spesso non usano neppure più la lingua natale. Esempi di cui ho parlato sono Tahar Ben Jelloun, che descrive il Marocco e la sua cultura stando in Francia e scrivendo in lingua francese, o Saleem Haddad, che ci racconta il Medio Oriente dall'Occidente e in inglese. Ci ho riflettuto su molto leggendo Tahar Ben Jelloun: un uomo che ha vissuto solo la propria giovinezza in Marocco e che vive in Francia da più anni di quanti ne abbia trascorsi in patria può davvero farsi portavoce della cultura e di conseguenza della letteratura marocchina?
Non so perché, ma diffido. La lontananza cambia tante cose: permangono i ricordi, che mano a mano diventano datati e sbiadiscono, fino a prendere contorni mitici, a tratti onirici. Si ricordano solo i momenti più belli e i grandi traumi, mentre la quotidianità, gli odori e i sapori, i rumori della vita di tutti i giorni si perdono irrimediabilmente. Pur rimanendo in Italia, se dovessi scrivere del periodo degli anni Ottanta, cioè quello legato alla mia infanzia, i miei ricordi sarebbero vaghi e filtrati dalla sensazione di placida giocosità dell'infanzia. Inevitabilmente credo che finirei per descrivere un periodo ricco di ottimismo e in cui si viveva bene, nonostante i tanti problemi, in netto contrasto col più negativo periodo attuale. Al contrario, se avessi avuto un'infanzia drammatica, segnata da profondi sconvolgimenti, credo che ne scriverei come di un periodo nero in generale, la cui luce alla fine del tunnel è il presente. Insomma, temo che la barriera del tempo e della lontananza intervenga a modellare e influenzare l'idea e la percezione che noi abbiamo di un Paese e della sua società.

Situazione simile, ma al contrario, per autori che descrivono una cultura in cui hanno vissuto, magari per moltissimi anni, ma che non è la loro di origine. Ci sono esempi datati, come Conrad, autore polacco per nascita, ma che durante la propria vita ha viaggiato costantemente, arruolandosi nella Marina francese prima e inglese poi, e che ha scelto proprio l'inglese come lingua letteraria; i Paesi visti e conosciuti durante la carriera militare sono lo scenario in cui si muovono i personaggi da lui inventati. Questo è anche il caso del romanzo che sto leggendo al momento, la cui autrice, premio Nobel per la letteratura, ha scritto principalmente della Cina, nonostante i suoi genitori fossero americani: la scrittrice visse gran parte della sua vita in Cina e non vi è dubbio alcuno che fosse, in cuor suo, la sua terra. Ciononostante lei era e resta americana e i suoi romanzi, per quanto accuratissimi nel descrivere l'Oriente anche nei dettagli della vita quotidiana, della lingua e della geografia, non possono essere considerati letteratura cinese. Conrad invece viene generalmente studiato come autore britannico, per via della sua naturalizzazione e forse del fatto che scrivesse in lingua inglese. Quale differenza c'è però tra i due? Perché l'uno è britannico e l'altra non può essere rappresentativa della Cina? Certo la discriminante non è la lingua utilizzata, se no cadrebbe l'esempio prima riportato di Tahar Ben Jelloun, che scrive in francese.
Cosa o chi decide davvero a che nazione appartiene un romanzo quando questi sono i presupposti?

Pensando a questa categoria di scrittori mi sono venuti in mente anche autori che ufficialmente scrivono del proprio Paese ma, essendo nati e cresciuti in giro per il mondo e spesso lontano dalla propria terra d'origine, sono come sradicati e mi paiono sempre un po' stranieri.
Un esempio è Amélie Nothomb, belga cresciuta in Giappone, poi vissuta in Francia, in Cina, per poi tornare per una breve parentesi in Giappone. Ora vive in Europa e ha sempre scritto in francese, ma nei suoi romanzi lo sguardo della scrittrice mi pare sempre un po' quello di un'aliena: descrive il Giappone dall'interno eppure dall'esterno, con occhi che giapponesi non sono, e dall'altra parte anche i suoi personaggi belgi o francesi sono spesso atipici, oppure osservati con una freddezza analitica molto nipponica. A quale nazione appartiene davvero la Nothomb? Una donna che ha vissuto così tanti sradicamenti, che ha avuto così poco tempo e occasioni di trovare una propria dimensione geografica, può essere legata in modo esclusivo alla letteratura di un solo Paese? E, in fondo, ha senso in questo caso farlo, da parte di noi lettori così come della critica?
Un'autrice tutta nostrana che a me fa lo stesso effetto è Dacia Maraini. Insomma, la figlia di Fosco Maraini, cresciuta in Giappone, poi tornata per un breve periodo in Sicilia e poi mandata in Toscana, ora residente a Roma... Nello scrivere "La lunga vita di Marianna Ucria" quanto si sarà sentita siciliana, lei, la cui mamma era discendente di una delle famiglie più distinte dell'isola, ma che in quei luoghi ha trascorso solo alcuni periodi di fanciullezza, per lo più legati alle vacanze? In fin dei conti, a mio avviso, si può essere sradicati anche all'interno del proprio Paese, se si parla di una regione che non ci appartiene affatto.
Con questo non voglio sminuire l'importanza o la validità delle opere di questo tipo di autori, perché anzi hanno caratteristiche tutte loro, una ricchezza impossibile altrimenti, ma che secondo me li rende, in qualche modo, più internazionali, globalizzati (volendo usare una parola brutta...). Potremmo dire che questo tipo di autori sono figli del mondo più che del Paese che ha dato loro (o ai loro genitori) i natali?

Alla fine ciò che conta, mi pare, è capire quanto lo sguardo dello scrittore sia stato influenzato dalla propria origine. Mi ripeto spesso, nell'esplorare un nuovo Paese attraverso un romanzo, che la personalità, le esperienze e la volontà di chi l'ha scritto convergono nel formarmi un'impressione piuttosto che un'altra e che alla stessa situazione, argomento o area geografica bisogna dare almeno due chance. Forse ciò che mi preme capire è quanto questo genere di autori siano più influenzati di altri nella narrazione a causa del filtro culturale insito nella loro origine.

Infine vorrei citare quegli scrittori che descrivono mondi fantastici o reali ma in modo totalmente diverso da come sono veramente. E' buffo ma da una parte ci sono autori fantasy e di fantascienza che, nei loro mondi inventati, ricostruiscono molto bene la società in cui vivono, criticandola spesso aspramente, mentre altri, pur utilizzando ambientazioni note, le stravolgono a loro piacimento, sfruttandole per i propri scopi.
Un esempio di quest'ultimo modo di agire si ha con Horace Walpole, l'autore de "Il castello di Otranto". L'Italia medievale che Walpole descrive non ha nulla a che fare con quella reale, così come la leggenda e il castello in cui è ambientata la vicenda non esistono nel paese di Otranto. L'autore inglese, a metà settecento, sceglie come scenario per il primo romanzo gotico della letteratura britannica l'Italia non per averne visitato le città e studiato la storia, ma perché Italia, e in particolar modo il Sud del Paese, era sinonimo di esoticità, terre straniere lontane e molto, molto diverse dalla Gran Bretagna, dove ancora si tramandavano superstizioni astruse e il religioso si mescolava al leggendario. Insomma, l'intento realistico è nullo e in questo caso davvero la scelta geografica non ha nessuna rilevanza nel contenuto perché il romanzo non descrive affatto l'Italia vera.
Tuttavia, essendo un po' pessimista e un po' cinica, mi chiedo: chi legge saprà davvero distinguere un romanzo di questo tipo da uno il cui autore ha raffigurato lo spirito della nazione coerentemente?

Conclusione: secondo me sempre più al giorno d'oggi ci sono autori che sfuggono alle categorizzazioni e non possono essere considerati realmente patrimonio nazionale quanto, piuttosto, mondiale. E leggere un solo autore originario di un determinato Paese non basta, ahimè, a farsi un'idea anche vaga del Paese in questione. Toccherà fare il giro due volte, alla fin fine...

Nota che non c'entra niente ma volevo includerla: mentre spulciavo il web alla ricerca di autori del Ciad (non fatevi domande, please...) ho scovato la pagina di un altro lettore folle che sta facendo il proprio giro del mondo letterario. Il suo progetto è meglio organizzato e documentato del mio, il che non è difficile, e se l'idea interessa e si vuole qualche spunto per delle letture extra può essere un'ottima risorsa. Il suo sito si chiama Capitolo 23, lui è Alfonso e l'elenco delle nazioni già recensite lo trovate qui, in rigoroso ordine alfabetico. Buona lettura!