sabato 14 ottobre 2017

68. Kurt Vonnegut - Ghiaccio-nove

Il gruppo di lettura in estate non va in vacanza: raddoppia. Quest'estate, dopo "Rinascimento privato" di Maria Bellonci è toccato a "Ghiaccio-nove" di Kurt Vonnegut.
Due romanzi che più diversi non si può, uno è un mattone, l'altro un libricino minuscolo; uno un romanzo storico, che parla di fatti veramente accaduti, l'altro un romanzo fantascientifico distopico, carico del graffiante sarcasmo tipico di Vonnegut. Uno l'esaltazione dell'Umanesimo, l'altro un ritratto del potenziale autodistruttivo dell'uomo.

Bisogna subito dire due cose su questo romanzo:
1. l'avevo già letto e amato qualche anno fa, anche se stavolta penso di averlo amato e capito di più;
2. il titolo italiano fa schifo. Il titolo originale è "Cat's cradle", tradotto "La culla del gatto" e fa riferimento a quel giochino che magari avrete imparato da piccoli, fatto con un elastico o un filo annodato, e che consiste in una serie di scambi e passaggi di mano, così che il filo possa assumere varie, affascinanti conformazioni. Cat's cradle è il nome che si dà a questo gioco in inglese (in italiano non credo esista un nome, anche se nel libro cita un termine, ripiglino, sinceramente mai sentito).  Se ancora non sapete di cosa sto parlando guardate qua:


Il fatto che l'autore abbia voluto mettere l'accento su questo gioco, citato alcune volte all'interno della narrazione, e non sul composto chimico Ghiaccio-nove qualcosa vorrà dire. Ma andiamo con ordine.

La storia è raccontata a posteriori dal protagonista, che all'inizio in una palese citazione di "Moby Dick" dice di chiamarsi Jonah, o meglio John. Tutto cominciò, dice, quando decise di scrivere un libro, intitolato "Il giorno in cui il mondo finì", facendo riferimento al giorno in cui fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Questo lo portò a contattare i familiari di uno dei padri di quella bomba, il dottor Felix Hoenikker, per chiedere loro come il padre, ormai defunto, avesse vissuto quella particolare giornata.
Ecco, fino a qui, quindi fino a pagina 10 circa, il riassunto racchiude già tutto il libro. Ebbene sì, perché "Ghiaccio-nove" è proprio la storia di come il mondo finì, o meglio di come l'umanità riuscì a inventare qualcosa di mostruosamente pericoloso e poi, con somma stupidità, ad autodistruggersi.
Parlare di questo libro è davvero difficile, perché ha così tanti livelli di lettura da lasciare veramente un po' spiazzati. Cercherò di mettere un po' di ordine in questa recensione e, attraverso di essa, nella mia mente.

Alla base sta appunto la storia di John, un nome a caso, il nome più banale, più comune della lingua inglese. Un nome che però, come Ismaele, ha forti connotazioni bibliche (il famoso Giona che visse nella balena). Se dobbiamo partire da lì, Giona era un portasfiga di livello divino, perché dio ce l'aveva con lui e lo voleva punire, mandandogli ogni calamità. Ecco, diciamo che il nostro John o forse Jonah le sue belle calamità se le porta proprio dietro.
Come dicevo contatta la famiglia Hoenikker, in particolare il più piccolo dei tre figli dello scienziato. Questi gli risponde pure e inizia così un avvicinamento che poi arriverà per vie traverse, ma fortemente manovrate dal fato, a fargli incontrare i colleghi più prossimi del dottor Hoenikker prima e l'intera famiglia (ovvero i tre figli) poi.
Quello che invece John non sa è che i tre portano con sé qualcosa di preziosissimo e allo stesso tempo letale, l'ultima invenzione del padre: il Ghiaccio-nove. Questo non è altro che un tipo di ghiaccio molto più resistente, che fonde alla temperatura di circa 45 gradi. La vera particolarità di questo ghiaccio, esistente soltanto in frammenti, è che a contatto con qualsiasi molecola d'acqua esso è in grado di trasformarla a sua volta in ghiaccio-nove. John quindi abbandonerà il proprio intento letterario per farsi trascinare, insieme a una sgangherata combriccola di personaggi, su un'isola sperduta dei Caraibi, dove risiedono personaggi misteriosi e straordinari.

Come si intuisce dal commentino fatto poco sopra, la storia finisce malino. Non proprio male, ecco, ma decisamente con l'amaro in bocca.
Naturalmente però l'autore ripete al lettore che questa storia è falsa, tutta falsa, dall'inizio alla fine. Una marea di scempiaggini. Come lo fa? Be', in ben tre modi.
Innanzitutto con le prime parole del libro, nella dedica:

"Niente è vero, in questo libro."

Il messaggio mi sembra cristallino. Nella stessa pagina inoltre riporta una citazione dal libro di Bokonon. Cos'è il bokononismo? Chi è Bokonon? Si tratta di una religione inventata, proprio spudoratamente inventata a tavolino, da un uomo normalissimo che, assunti i panni del santone per incanalare l'energia della povera gente in una religione consolatoria e piena d'amore per il prossimo, che facesse loro dimenticare il Paese disastrato in cui vivevano, prese appunto il nome di Bokonon e sparì dalla circolazione. Vonnegut con questa religione fa una critica alle religioni tutte, oppio dei popoli, anche se questo culto è diverso: Bokonon stesso rivela, nei suoi libri, che tutto ciò che è scritto sono foma, panzane. Eppure più il lettore apprende gli insegnamenti di Bokonon più li trova veri, profondi e significativi. Quindi una religione che si manifesta come falsa e invece si percepisce come verità? Sempre più complicato...
E c'è anche la culla del gatto, non dimentichiamocene. La culla del gatto che, ad un gatto nella cesta, non assomiglia proprio per niente. La culla, o cesta, del gatto diventa all'interno del romanzo una metafora per qualcosa che si dice, a cui si finge di credere, che si cerca di considerare reale anche se in verità è una menzogna, anche se non esiste.

"Lo vede il gatto? La vede la cesta?"

Questa domanda è ripetuta ancora e ancora, nei capitoli centrali del libro, e funge da commento alla religione, così come alla finzione di una felicità familiare inesistente. E non bisogna dimenticarlo, è il titolo del libro. Un libro che è un coacervo di panzane; eppure riserva tanta verità...

La storia finisce male, come dicevo, ma non malissimo. In fondo è consolatoria, perché è meglio della realtà. Nel libro ciò che scatena la fine del mondo è il famigerato ghiaccio-nove del titolo italiano. (Come un titolo può dare un peso diverso al contenuto di un romanzo... Non finirò mai di dirlo) Come mai ciò accade? Non lo rivelo, non voglio fare spoiler, ma posso dire che succede per amore: nella fattispecie i tre figli di Hoenikker, ognuno in possesso di un frammento di ghiaccio-nove, hanno ceduto questo tesoro dalle complicazioni mortali a tre persone diverse...per amore. Non è in fondo bellissimo, pensare che la fine del mondo sia causata dalla stupidità umana che, pur di sentirsi amata, sarebbe disposta a pagare qualsiasi prezzo?
Già, sarebbe bello pensare che sia così. Che sia l'amore quel motore che ci fa fare pazzie, anche sbagliare. Ciononostante la vita reale non è così. La storia ci ha insegnato qualcosa di diverso e Vonnegut ce ne parla fin dalla prima pagina del romanzo. Il protagonista voleva scrivere un libro sul giorno in cui il mondo finì, che lui aveva identificato come il giorno in cui gli USA sganciarono la prima bomba nucleare su Hiroshima.
Vonnegut ci riporta quindi alla Seconda Guerra Mondiale, che è un leitmotiv di molti suoi romanzi. Non riusciva proprio a tenerla fuori dai suoi scritti la propria esperienza autobiografica... La guerra, l'esperienza sconvolgente della morte l'aveva segnato così a fondo da riversarsi poi in molti dei suoi romanzi. Impossibile non citare qui quello che è forse considerato il suo capolavoro, "Mattatoio n. 5", libro che lessi alcuni anni fa appena prima di questo e che rimane, ad oggi, uno dei libri che più mi hanno emozionato, commosso e fatto male in tanti anni di letture. Se qualcuno non l'avesse ancora letto, affrettatevi, perché non sarete più gli stessi dopo.
Questa volta l'attenzione è puntata sulla bomba nucleare, che però non è stata affatto sganciata per amore. L'uomo si elimina per ragioni molto più squallide nella realtà. Si autodistrugge perché tutti, da Oriente a Occidente, vogliono vincere a Risiko. Quindi mi piace pensare che sia consolatoria la fine dell'umanità secondo Vonnegut, che parte da San Lorenzo, un'isola dimenticata da tutti, per la stupidità e l'incapacità di un gruppetto di idioti sfortunati.
Che la fine del mondo autocausata sia inevitabile, d'altronde, lo dice anche Bokonon nel Quattordicesimo libro:

"Che speranze può nutrire un uomo ragionevole per l'umanità su questa terra, tenendo conto dell'esperienza dell'ultimo milione di anni?
Nessuna."

Mi pare che questo commento trasudi amore da tutti i pori. A questo posso solo aggiungere che il libro pullula di citazioni che vorrei condividere, tra le quali una delle più belle celebrazioni funebri che io abbia mai letto.


"Dio creò il fango.
Dio si sentiva solo.
Così Dio disse a un po' di quel fango: 'Levati a sedere!
Guarda quante cose ho fatto,' disse Dio, 'le montagne, il mare, il cielo, le stelle.'
E io ero un po' di quel fango che si levò a sedere per guardarsi intorno.
Fortunato me, fortunato fango.
Io, fango, mi levai a sedere e vidi che bel lavoro aveva fatto Dio.
Ben fatto, Dio!
Nessun altro avrebbe potuto farlo all'infuori di Te, Dio! Certamente io non avrei potuto!
Mi sento molto insignificante in confronto a Te.
L'unico modo di sentirmi un tantino più importante sarebbe di pensare a tutto il fango che non si è neppure levato a sedere per guardarsi intorno. 
Io ho avuto così tanto, e la maggior parte del fango ha così poco.
Grazie per l'onore!
E ora il fango giace di nuovo e va a dormire.
Che bei ricordi per il fango!
Quanti altri tipi interessanti di fango seduto ho conosciuto!
Ho amato ogni cosa che ho visto!
Buona notte."

Non è meraviglioso? Io vorrei che la leggessero al mio funerale, se mai qualcuno se ne ricordasse. Assolutamente commovente.

Non dico che questo romanzo debba piacere a tutti. Lo stile di Kurt Vonnegut è molto particolare, frastagliato e a tratti sconclusionato, come lo sono sempre i suoi personaggi, folli maschere grottesche dell'umanità. Molti questo stile di scrittura, fatto di capitoli cortissimi e di salti narrativi continui, non lo digeriscono proprio e non posso farne una colpa a nessuno. Però io l'ho amato tanto. Non posso dire che questo libro sia perfetto solo perché so che Vonnegut può fare ancora di più, sconvolgere ancora di più l'esistenza di un lettore. Sfiora il gradino alto, ma si ferma al secondo posto.

Chiudo con un'ultima citazione, questa amara, che mi ha fatto tanto pensare a quanti vedo attorno a me, incattiviti da una vita che non ha dato loro ciò che si aspettavano e per cui hanno faticato.

"Guardati dall'uomo che lavora sodo per imparare qualcosa, e una volta che l'ha imparato, non diventa più saggio di prima. Egli nutre un risentimento omicida per la gente ignorante che non ha dovuto faticare per la propria ignoranza."

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