martedì 18 aprile 2017

46. Joseph Roth - La Cripta dei Cappuccini

Joseph Roth è uno di quegli autori che non si può proprio associare a un Paese preciso, non al giorno d'oggi. Nato a Brody, piccolo paese attualmente parte dell'Ucraina, è considerato in verità uno scrittore austriaco, scrisse in tedesco, ed è connotato in particolare per la sua appartenenza al gruppo degli ebrei galiziani, una comunità piuttosto numerosa all'inizio del '900 (e rappresentata anche nel romanzo protagonista di questo post). Insomma, un uomo che si può definire solo austro-ungarico e che di quest'appartenenza fa proprio il suo marchio di fabbrica, perché è conosciuto come il narratore della decadenza e della fine dell'Impero.

"La cripta dei Cappuccini" è il secondo capitolo di una breve serie composta da due romanzi e un racconto, che hanno in comune la descrizione delle vicende della famiglia Trotta. Nella prima parte, intitolata "La marcia di Radetzky", si narra di un ramo eroico della famiglia e della sua lenta decadenza; in questo secondo capitolo, che si può leggere tranquillamente in modo indipendente, l'autore segue le vicende dell'altro ramo genealogico, ancora una volta focalizzandosi sul suo disfacimento. La Cripta dei Cappuccini che dà il titolo al romanzo esiste davvero e altro non è che la cripta della chiesa di S. Maria degli Angeli a Vienna, dove tradizionalmente venivano seppelliti i membri della famiglia imperiale. Qui si possono ancora oggi visitare le tombe di molti personaggi famosi e sebbene nel romanzo appaia solo verso la fine rappresenta per il lettore un simbolo, una metafora del tempo corrente: il vecchio sistema è morto e giace qui, sepolto, per sempre. Il mondo là fuori è cambiato e non c'è più spazio per gli imperatori. Quindi il mood del libro dovrebbe a ben vedere essere questo:


Devo dire che Roth è bravissimo a farcela sentire, quest'allegria straripante.

La vicenda parte all'inizio del XX secolo, alle porte della Prima Guerra Mondiale. Protagonista è il giovane Francesco Ferdinando Trotta, unico erede di una casata ricca ma non grandemente nobiliare, che vive tra i lussi dei caffè di Vienna e i salotti della nobiltà annoiata a cui si accompagna. Trotta non ha un'occupazione, non ha mai dovuto fare alcun lavoro né mai dovrà preoccuparsene, perché sua madre un giorno gli lascerà in eredità una notevole somma di denaro e di proprietà immobiliari amministrate dal legale di famiglia. Quindi si tiene occupato con i mezzi del tempo: le uscite con gli amici, le notti a bere nei locali fino a tardi, il collezionismo di oggetti curiosi di carattere popolare e un amore più o meno inconfessato e sicuramente superficiale per la giovane Elisabeth.

Sono giovani annoiati e senza sogni, senza ideali, quelli della decadenza asburgica, incarnazioni perfette di quel disagio chiamato spirito di fin de siècle. E come tali, allo scoppio della grande guerra, si precipitano al fronte, pronti nella loro fantasia a gesta di chissà quale eroismo. Molti di loro dal fronte non torneranno e chi invece farà ritorno a casa troverà un mondo che più non appartiene loro, cambiato per sempre.
Roth non si dilunga nella descrizione della guerra. Trotta viene fatto quasi subito prigioniero e da lì in poi se la caverà facendo amicizia con ufficiali russi che avranno per lui un occhio di riguardo. Trotta è una persona fondamentalmente innocua, dal carattere aperto e amichevole, e con tutti i suoi difetti non si sente mai superiore agli esponenti del popolo lavoratore di cui non fa parte; gli piace anzi, con quell'atteggiamento sciocco che a volte hanno i ricchi, immergersi tra loro, cercare di farseli amici e di assomigliare loro, quasi fosse un atto trasgressivo e stimolante. Potremmo anche dire che Trotta, nel male, è ben fortunato.
Fatto sta che nel tornare a Vienna, a guerra ormai finita, trova la sua vita stravolta.

Ovviamente non posso andare avanti a raccontare nei dettagli ciò che succede nel romanzo senza spoilerare completamente tutta la trama. Mi limito quindi a dire che le rinnovate condizioni e istituzioni hanno già profondamente cambiato la cultura austriaca e pretendono, da parte della vecchia classe dirigente, un mutamento profondo, nei modi e nello stile di vita; questo tuttavia non è sempre possibile. Lo si vede nella vita di tutti i giorni: non tutti sono capaci di reinventarsi e di solito è chi ha vissuto in modo più agiato a soffrire questo genere di sconvolgimenti sociali. E' senza dubbio una debolezza, una grave mancanza di carattere, ma è anche estremamente vero e umano e per questo Trotta, nel suo essere spesso irritante, mi è sembrato così reale.
Così i protagonisti si rifugiano nel ricordo di un'epoca che non c'è più, di una società utopica che rivive solo nei loro ricordi. Non che l'Austria imperiale fosse un paradiso: lungi da tanta perfezione, l'autore è ben consapevole, e ce lo dice, che si trattasse di un mondo spesso crudele, corrotto e violento, in cui trionfavano arroganza e ingiustizia sociale. Ma che conta questo, quando il proprio presente è così alieno da lasciare un uomo sperduto?

Il personaggio di Elisabeth è forse quello che meglio degli altri risalta tra le pagine, specie nell'ultima parte, e insieme a Trotta ben rappresenta il periodo storico in questione. L'amore tra Elisabeth e Trotta, semplicemente, non esiste. Non è amore questa conoscenza superficiale che sfiorisce al primo contatto, alla prima vera occasione di intimità. Ciononostante questo tipo di rapporti, evanescenti e finiti prima ancora di iniziare davvero, sono l'unico tipo di relazione che ci si possa aspettare da persone così egocentriche ma allo stesso tempo inconsapevoli, non soltanto di ciò che si è, ma persino del mondo in cui ci si muove.
Elisabeth è una donna apparentemente moderna, che nel giro dei quattro anni della guerra fiorisce, potremmo dire, in una creatura che, da donna ottocentesca, diventa indipendente e in possesso del proprio destino. Tutto ciò naturalmente è solo apparenza. Non c'è nulla in Elisabeth che sia realmente sentito: è lo specchio fedele dell'influenza di chi le sta accanto, il superficiale e sciocco entusiasmo di chi non ha idee proprie e quindi si infervora per quelle degli altri. Elisabeth la trasgressiva, come potremmo pensare, questa donna che si lascia andare a una sessualità non convenzionale e si dedica all'arte, in verità agisce a caso, seguendo di momento in momento chi più la manipola col proprio carisma. Non si scorge, in lei, nessun vero affetto, nessuna appartenenza profonda, nessun valore irrinunciabile. Non c'è nulla di cui le importi davvero, se non l'irrinunciabile follia del momento.
Ed è rappresentativa, questa Elisabeth, perché quasi tutti i giovani all'interno del romanzo, almeno nella cerchia del protagonista, sembrano agire totalmente a caso, sull'impulso del momento o della moda, ma senza seguire desideri e principi più profondi. Ecco allora la fine secolo, la crisi dei valori, la perdita delle certezze e il rifugiarsi nell'estetica, nel materiale e transitorio per trovare sollievo, per mettere a tacere il proprio stordimento, per non sentire che c'è un vuoto; e tuttavia quel buco non si può colmare così, con la leggerezza e l'indifferenza.

Questo è il momento in cui questo romanzo ha iniziato a diventare doloroso, per me. Perché tra le pagine di Roth ho letto un mondo che mi è fin troppo familiare, un disagio sociale che rileggo ogni giorno sui volti dei miei allievi a scuola, sui ventenni che mi capita di frequentare. A cento anni di distanza la fine del secolo ha colpito ancora e con violenza la nostra società. Si sono salvati in pochi, dalla mia età in giù, e leggendo queste pagine ho ritrovato tutte le contraddizioni e le pochezze della nostra epoca, tutta la sofferenza di una generazione X, sbandata da una società che ha distrutto il vecchio senza saper ricostruire il nuovo. Toccherà a loro e a noi creare un mondo più moderno, più giusto. Il problema è che per loro, quelli dell'inizio '900, la spinta al cambiamento è stata una guerra mondiale che ha fatto 6 milioni di morti e decine di milioni di feriti e invalidi. E nemmeno questo è bastato, visto che poi ci sono stati i totalitarismi e la Seconda Guerra Mondiale. Insomma, se diamo ragione a Vico e crediamo nei corsi e ricorsi storici (e io un po' la sposo, questa teoria) allora il peggio deve ancora arrivare...

Sono più fortunati i vecchi, allora, in questo mondo a gambe all'aria. La madre di Trotta, donna tutta d'un pezzo, è l'incarnazione dei valori del passato e rimane, fino alla fine, l'ultimo baluardo del vecchio regime. L'autore la tratta con una dolcezza, una tenerezza che rivelano un occhio di riguardo. Pur avendo fatto molti errori, pur avendo attivamente mandato in malora la famiglia, non le rimprovera mai nulla davvero, perché la signora è sola, è anziana, non capisce la modernità che avanza e, alla fine dei suoi giorni, non è nemmeno del tutto in sé.
Raramente mi è capitato di leggere una descrizione della vecchiaia più dolce, un occhio così ottimista su un periodo della vita che è di solito guardato con odio, tristezza, rimpianto. Bellissimo il modo in cui invece ne parla Roth, come riesce a trovare poesia e sollievo in eventi dolorosi come il venir meno delle facoltà mentali.

Com'è caritatevole la natura! I malanni che essa regala alla vecchiaia sono una grazia. Oblio ci regala, sordità e occhi deboli, quando si diventa vecchi; un poco di confusione anche, poco prima della morte. Le ombre da cui questa si fa precedere sono fresche e caritatevoli.

La storia termina con l'arrivo dei nazisti in Austria, l'occupazione e la fuga degli ebrei da Vienna. Questo evento è la vera fine dello splendore passato: gli ebrei a Vienna e in generale nell'Impero erano stati una parte fondante della società; con loro se ne vanno non soltanto vetturini e ambulanti, ma anche alcuni dei più ricchi abitanti, i gestori di alcuni dei locali più alla moda della città e persino molti nobili. Non solo: con questo atto di invasione l'Austria perde la propria indipendenza come nazione. Quindi nel giro di vent'anni Trotta si ritrova a vivere la distruzione di un impero fino al proprio totale annullamento.
Sospetto che avrebbe desiderato quell'oblio riservato ai vecchi, quello che aveva reso gli ultimi anni della madre più dolci. Invece Trotta è, nonostante la propria inutilità, ancora giovane, nel pieno anzi delle forze, e gli tocca sopravvivere. Roth crea una forte assonanza tra lo stato d'animo del protagonista e i lampioni di Vienna in una delle descrizioni finali del libro.

...i lampioni intristivano, stanchi del vano risplendere. Agognavano il mattino indolente e il loro stesso estinguersi. Sì, erano sempre stanchi, i lampioni sfiniti dalla veglia, che volevano il mattino per potersi addormentare.

E' questa la tragedia dell'uomo nella generazione X, il non trovare un posto ma non potersene nemmeno andare. Allora che fa? Si aggrappa al passato, al poco che gli resta, e va a rifugiarsi in un luogo amato, che per lui rappresenta la sicurezza perduta. La tomba dell'imperatore.


La storia si chiude su questo momento storico, così come la vita dell'autore, morto soltanto un anno dopo aver pubblicato questo romanzo. Un uomo a sua volta sofferente, alcolizzato, afflitto da problematiche psichiche (sicuramente era un impostore e un mitomane) e sposato con una donna malata di mente. C'è molto di Roth nelle sue storie, forse più di quanto vorremmo conoscere, perché Trotta o gli altri protagonisti delle sue storie non sono certo gente a cui vorremmo accompagnarci; eppure ci parlano perfettamente di un tempo che è passato ma mai quanto ora vicino.

Personalmente consiglio la lettura di questo romanzo: è breve, lo stile è semplice e facile da seguire, un libro che scorre come acqua e lascia incollata dentro una patina di amarezza. D'altronde mica si legge solo per trastullarsi...

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