Non si può chiamare "Olalla" un romanzo. Sebbene sia stato pubblicato in un volume indipendente questo è a tutti gli effetti un racconto lungo. Per questo è il genere di lettura da 3 ore: un pomeriggio al lago, complici le vacanze, e questo libricino si volatilizza. Purtroppo senza lasciare granché dietro di sé...
Stevenson è proprio lui, quello famoso per "L'isola del tesoro" e "Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde". Questo racconto fa parte del periodo inquietante e misterioso in cui lo scrittore era impegnato nell'editing del secondo romanzo citato e si sente: l'atmosfera è carica di una cupa angoscia che si respira anche nell'altra storia, ma qui ha toni più smorzati e fumosi, quasi onirici. Non è un caso dunque se Stevenson raccontò di aver sognato questa storia e di aver faticosamente cercato di riportarla sulla carta.
L'ambientazione però è del tutto diversa: siamo in Spagna, presumibilmente nei primi anni del 1800, e l'io narratore è un soldato, un ufficiale, che dopo essere stato ferito in battaglia è alla ricerca di un periodo di riposo lontano dal clima umido e uggioso della madrepatria, la Gran Bretagna appunto. Su consiglio del suo medico sceglie di andare da pensionante in una magione spersa nelle montagne, residenza di un'antica famiglia nobiliare caduta in disgrazia. La famiglia ha una sola richiesta da fare: che lui non entri in alcun modo in confidenza con i suoi componenti. E' così che l'ufficiale incontra la padrona di casa e i suoi due figli, Felipe e Olalla. Be', non esattamente in quest'ordine... Ma il fatto che Olalla dia il titolo al libro fa intuire che avrà un certo peso nella storia.
Come dicevo c'è un velo di mistero che aleggia su questa storia, ma più di un vero senso di soprannaturale mi ha fatto pensare a "Il giro di vite" di Henry James: l'idea che qualcosa di demoniaco all'opera potrebbe esserci, ma anche no; forse è tutta immaginazione, forse è la gente che viaggia con la fantasia, o invece questa famiglia maledetta qualcosa di strano e innaturale ce l'ha davvero. E' un racconto del supposto, del temuto, dell'immaginato. Forse per questo alla fine mi ha lasciato un po' di inconcluso in gola.
Non sono molte le tematiche sviluppate dall'autore. In quest'atmosfera tardo gotica trova spazio l'immancabile follia amorosa (ma sarà poi amore, una passione alimentata dalle fantasie e da un paio di incontri fortuiti e silenziosi?), ma ciò che mi ha intrigato di più è la descrizione della decadenza all'interno della famiglia nobiliare spagnola.
L'autore ancora una volta cede all'attrazione del tema del doppio, in un certo senso, anche se non lo visualizza più in due entità diverse, ma come caratteristiche unite all'interno dell'individuo. In questa famiglia da generazioni gli esponenti mantengono sembianze molto simili e assai avvenenti, ma nel frattempo la loro lucidità mentale e intelligenza è andata perduta. Tutti noi abbiamo sentito parlare di come la maggior parte delle famiglie nobiliari di tutta Europa siano piuttosto malandate geneticamente, portatrici di un sacco di malattie inasprite e sviluppate dal costante matrimonio tra consanguinei più o meno prossimi. In questo racconto però il disfacimento mentale che ci aspettiamo è controbilanciato da un fascino esteriore che invece non passa, ma rimane immutato nelle generazioni. Come se l'interiorità di queste famiglie spesso malvagie, corrotte e rovinate dalla loro stessa superbia si distingua nella vacuità del loro sguardo, mentre all'esterno tutto rimane uguale, trasferendosi di generazione in generazione quasi come un'arma, perché è a questo che serve: sedurre chi sarà così debole da farsi ammaliare e dare nuova linfa vitale alla famiglia.
La tematica è carina e poteva essere sviluppata in molti modi, sia realistici che più fantastici, ma a mio parere Stevenson qui un po' pecca. C'è una ripetitività, una pesantezza nella narrativa, i protagonisti hanno ben poco da dire e da dirsi ma lo ripetono per decine di pagine. A questo si aggiunge uno stile non proprio scorrevole, l'ambientazione difficile da inquadrare all'inizio, e la mancanza di pause di respiro (94 pagine a capitolo unico, senza separazioni interne alla narrazione: un'unica tirata senza un momento in cui infilare il segnalibro).
Insomma, tutti questi piccoli nei, a mio parere, fanno perdere un po' di attrattiva al racconto e mi inducono a non consigliarlo, a meno che non si abbia una particolare predilezione per questo autore o per le atmosfere gotiche e le situazioni inquietanti ma non chiarite.
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