Ho sentito parlare di questo libro su tantissimi siti, me
l’hanno consigliato svariate persone. Quanto l’ho visto sulla libreria di un
amico non ho potuto trattenermi e gliel'ho chiesto in prestito. Poi l’ho
tenuto per mesi, rapito sulla mia mensola dei libri altrui, senza leggerlo.
Sono fatta così, è un dispiacere prestarmi i libri, perché non tornano per un
sacco di tempo. Alla fine però agosto è arrivato e con lui la voglia di leggere
un romanzo che tutti mi avevano presentato come pesantino e dai contenuti duri.
Posso confermare la durezza dei contenuti, ma pesante non lo
è stato per nulla. Anzi. La “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof vola
tra le mani del lettore, pagina dopo pagina. Capitoli brevi, tanti avvenimenti
ma soprattutto tanti segreti da svelare, tante vite da scoprire. La Kristof
narra tutto questo con uno stile schietto, essenziale, frasi brevi e
descrizioni concise.
In verità, come d'altronde dice il titolo, questo libro è
composto da tre romanzi, che l’autrice pubblicò tra il 1986 e il 1991: “Il
grande quaderno”, “La prova” e “La terza menzogna”.
Le tre storie non sono propriamente una la continuazione
dell’altra, quanto una dentro
l’altra. Sebbene l’autrice dia l’impressione di continuare la narrazione del
primo nel secondo, in verità c’è sempre una sorpresa, un colpo di scena che
costringe il lettore a riconsiderare ciò che ha letto fino a quel momento e a
rimetterlo in una nuova prospettiva, a far spazio a una nuova verità.
La prima parte, “Il grande quaderno” è il più duro e disturbante
dei tre. Protagonisti sono due bambini, gemelli, che vengono portati dalla
madre in un piccolo paese, a casa della nonna che, fino a quel momento, non
avevano mai conosciuto. In fuga da una grande città a causa della
guerra, la madre implora la nonna, con cui aveva troncato i rapporti, di
accogliere e tenere con sé i bambini per proteggerli dalle bombe e dalla
violenza.
La nonna, una vecchia povera e ignorante considerata da
tutti una strega perché ritenuta l’assassina del proprio marito, accetta di
ospitare i bambini ma riserva loro una vita d’inferno, fatta di lavoro e
soprusi e assolutamente priva di affetto. I gemellini si adattano in fretta
alla nuova situazione e si inventano mille strategie per resistere alla sofferenza di
vivere.
“Il grande quaderno” è la narrazione della corruzione di due
bambini innocenti. La povertà, la guerra ma soprattutto la crudeltà degli
adulti che li circondano li trasformano velocemente in piccoli criminali,
astuti e spietati, sebbene ritengano nel profondo del loro cuore un forte senso
di giustizia. Il decadimento morale è
rappresentato anche in modo fisico: a casa della nonna tutto è sporco, lurido,
e anche loro piano piano diventano sempre più sporchi, dentro come fuori.
Sullo sfondo l’autrice descrive la seconda guerra mondiale.
Non viene mai nominata una data, così come non ci dà mai riferimenti geografici
precisi. Non sappiamo il nome del paese, della grande città vicina, della
capitale, della Nazione o del grande fiume, ma lo possiamo immaginare. Possiamo
figurarci l’Ungheria dell’ovest, vicino al confine, la capitale lontana oltre
il Danubio. Ancora una volta un libro che mi ha spinto a ripassare un po’ di
storia e geografia! Le vicende hanno avvio quando la guerra è già in pieno
svolgimento, possiamo ipotizzare verso il 1942, e il lettore assiste al
progressivo peggioramento della situazione. Durante la seconda guerra mondiale
l’Ungheria entrò in guerra al fianco della Germania di Hitler e combatté
principalmente sul fronte orientale contro la Russia. Nel ’44, in seguito alle
trattative che avrebbero portato l’Ungheria a staccarsi dai nazisti, Hitler
invase il Paese, deportando migliaia di persone e prendendo il controllo della
nazione. La guerra continuò fino all'arrivo delle forze sovietiche, che presero
possesso del territorio Ungherese e ne fecero uno dei loro Paesi d’influenza,
parte del Patto di Varsavia. Tutti questi avvenimenti hanno un posto nella
storia narrata da Agota Kristof; seguiamo da questo piccolo villaggio di frontiera
la storia di un interno continente, l’Europa, gli sconvolgimenti che ne
cambiarono per sempre la fisionomia e gli assetti politici.
Anche i protagonisti della storia non hanno nome. La nonna,
la madre e il padre, e soprattutto i gemelli, non vengono mai chiamati per
nome. Particolarmente forte è l’impressione che questo fa nel caso dei
fratellini, che diventano una sorta di unica identità, legati in modo
indistinguibile e, a tutti gli effetti,
simbiotici. Per questo sorprende tanto il finale di questo primo capitolo della
storia (ma non dirò cosa succede, se no dove sta il bello?).
Il secondo romanzo, “La prova” è incentrato sulla figura di
uno dei due gemelli, Lucas, e ne segue la vita fino all'ennesimo colpo di scena
finale. Questa seconda parte si concentra di più sull'analisi dei legami umani,
la necessità di relazione che unisce le persone. C’è una grande solitudine che
pervade il secondo capitolo della storia. Il lettore assiste con amarezza allo
scorrere del tempo nel paese di frontiera e non può non provare pena per i suoi
abitanti, la loro solitudine, il loro bisogno di contatto e la mancanza di
reali legami d’affetto. Si aggrappano gli uni agli altri per non affogare nella
tristezza, nell'insensatezza dell’esistenza, ma non riescono mai davvero a non
sentirsi soli. Il sesso, il fumo, l’alcool soprattutto non riescono a colmare
quel vuoto esistenziale che ogni uomo si porta dentro.
Sullo sfondo ancora una volta la storia, quella
dell’Ungheria. Dalla cortina di ferro che divide i Paesi d’influenza sovietica
dall'Europa occidentale fino agli anni ’80, l’autrice ci mostra uno scorcio dei
cambiamenti che interessarono il Paese. Il regime comunista e la censura, la
rivoluzione ungherese del 1956 e la repressione con la fuga all'estero di tanti
oppositori del regime, tutto concorre ancora una volta alla costruzione del
destino dei protagonisti e delle comparse senza davvero assumere mai il primo
piano.
La terza e ultima parte sposta l'attenzione su Claus, scrittore in visita alla cittadina di K. (così scopriamo chiamarsi il villaggio in cui è ambientata tutta la vicenda) arrestato per problemi di visto e in attesa di essere rimpatriato.
Il titolo, "La terza menzogna", fa riferimento a tre bugie che Claus ha raccontato tanti anni prima, tre segreti che ancora conserva gelosamente. La visita di Claus alla città di K. non è finalizzata alla sola vacanza. Claus è malato e vorrebbe morire nella città natia, ma non prima di aver affrontato un'ultima prova: quella di ricostruire la propria identità, riscoprire il proprio passato facendolo riaffiorare dai propri ricordi. Claus ha vissuto una vita fingendosi qualcuno che non era e sotterrando le memorie della propria infanzia nel profondo del proprio cervello, dove sono state rielaborate e sono diventate una storia da narrare.
Il terzo capitolo della serie è meno legato alla storia, meno crudo e più psicologico. Affronta il problema dell'identità, della ricostruzione degli affetti e del modo in cui le vicende che ci ritroviamo a vivere formano la nostra personalità ma influenzano anche il nostro futuro. Non è un mondo felice quello di Agota Kristof; nessuno dei suoi personaggi ha avuto una vita facile o davvero soddisfacente. La vita è anzi vista come un susseguirsi di fatiche e dolori, sebbene gli affetti possano andare ad ammorbidire un po' anche le situazioni più tragiche. Tuttavia anche la perdita degli affetti pare inevitabile in questo mondo...
La ricerca della parte mancante di sé si conclude in questo romanzo in modo piuttosto negativo. D'altronde con una visione così pessimistica dell'esistenza umana (totalmente giustificata dagli eventi, comunque; non c'è passaggio in cui il punto di vista dell'autrice/dei personaggi non sia comprensibile) non ci si poteva aspettare un lieto fine per questa trilogia. Resta da dimostrare quale sia, in verità, il lieto fine...
[...] Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un'inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione.
Sono più fortunati coloro che se ne vanno o coloro che restano? Meglio morire giovani e non vivere la propria vita, non avere una possibilità, o rimanere, diventare vecchi e portare le conseguenze della mancanza di chi non c'è più? Non esiste alternativa nelle pagine della Kristof.
Certo, una visione non allettante. Non so se dopo una presentazione simile a qualcuno verrà voglia di leggere questo libro. Ciononostante l'ho trovato veramente bello, intenso, vero, di quella verità che rimane nel tempo, che è la discriminante della letteratura di valore. Sono felice di averlo letto ora, con la maturità dei trent'anni; forse prima non l'avrei capito, non l'avrei gustato fino in fondo. Se avete il cuore forte, se sapete che la vita porta tanto dolore ma non avete paura, perché non siete soli, questo libro non può mancare alle vostre letture.
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