Ci sono persone che rappresentano con la loro stessa esistenza la complessità e le contraddizioni del mondo globalizzato. Saleem Haddad ne è un esempio lampante.
Nato in Kuwait da padre libano-palestinese e madre iracheno-tedesca, Haddad è cresciuto tra Giordania, Cipro, Canada e Gran Bretagna. Un bel mix, non c'è che dire, il ragazzo parte incasinato. Inoltre, pur essendo ufficialmente residente a Londra, ha lavorato con Medici Senza Frontiere in molti Paesi del Medio Oriente, quali Yemen, Siria e Iraq. Posso immaginare che lì sia venuto in contatto con parecchi profughi e abbia potuto vedere coi propri occhi i risultati della guerra in Afghanistan e in Iraq così come dei moti della cosiddetta "Primavera araba", che hanno portato in alcuni casi alla guerra civile e all'ascesa di gruppi islamici combattenti.
In parte, in gran parte, il romanzo "Ultimo giro al Guapa" parla proprio di questo, della condizione del Medio Oriente nel mezzo dei venti di rivoluzione ma sul punto di cadere nel caos della guerra civile. La storia non è ambientata in nessuno stato in particolare, Haddad usa nomi fittizi, inventa un background sociopolitico e un paesaggio urbano mischiando situazioni e realtà che ha plausibilmente toccato con mano. Direi che tra le pagine del romanzo si possono facilmente riconoscere Libano, Egitto e Siria, per citarne solo tre. L'autore tocca parecchi punti dolenti, quali le dittature del mondo arabo, le rivolte popolari soffocate nel sangue e le torture inflitte dalla polizia a chi finisce nelle sue grinfie per un motivo qualsiasi; il forte conflitto tra la ricchezza di pochi occidentalizzati e l'estrema povertà e ignoranza della larga maggioranza della popolazione, conflitto a volte sottolineato persino nell'urbanistica e che, creando una voragine di insoddisfazione, ha portato negli anni alla nascita di gruppi armati di ribelli controllati da fondamentalisti islamici ma supportati da parte del popolo; l'enorme peso che la morale pubblica, legata agli insegnamenti della religione musulmana, ha sulla vita delle persone e sulle loro scelte non solo personali ma anche politiche.
Interessante è anche il punto di vista del protagonista, Rasa, che a diciotto anni lascia il proprio Paese per andare a studiare in un'università statunitense. Questa pratica è diffusissima nell'alta borghesia mediorientale, in parte per questioni di prestigio e in parte per le maggiori possibilità di specializzazione che l'Occidente offre, e ha dato luogo negli ultimi anni a una vera e propria fuga di cervelli dagli stati arabi; ciononostante non è questo il caso del protagonista. Piuttosto l'autore ci presenta il trauma degli attacchi terroristici dell'11 settembre e della conseguente guerra in Afghanistan dagli occhi di chi è originario di quei luoghi e si sente discriminato e guardato come un criminale dai propri compagni di scuola mentre televisione e giornali danno un ritratto delle proprie origini che lui non riconosce. Dev'essere stata, e dev'esserlo tuttora, una situazione davvero disturbante vivere negli Stati Uniti proveniendo da un Paese arabo all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle.
Haddad ha pescato a piene mani dalle proprie esperienze personali, creando un panorama davvero complicato da mettere a fuoco per chi non è ben aggiornato sulla situazione culturale e politica del mondo arabo, ma forse per questo più realistico e affascinante. Anche l'utilizzo di molta terminologia araba, probabilmente in alcuni casi davvero intraducibile, aiuta a calarsi nell'ambientazione. Leggendo si scopre il significato di parole quali haram o heib, rispettivamente traducibili più o meno come peccato e perversione, entrambi trasgressioni della morale religiosa e delle dinamiche sociali condivise.
Personalmente mi ha colpito molto la rappresentazione della mentalità mediorientale. Come l'autore scrive più volte nel corso del romanzo, il nucleo fondamentale della società araba è la famiglia; questo pone un carico spropositato sull'importanza del matrimonio, della procreazione e della gerarchia di potere all'interno del nucleo familiare stesso. L'obbedienza e la sottomissione, in qualche modo, ai membri più anziani, delle donne agli uomini, del personale di servizio ai padroni di casa... Tutto questo pare essere una parte fondamentale della costituzione sociale nel mondo arabo e condiziona pesantemente la vita delle persone. Subito dopo, e in forte relazione col primo punto, viene la rispettabilità, la reputazione; ciò che gli altri pensano e l'immagine che si dà di sé all'esterno conta più di ciò che succede tra le mura domestiche e sicuramente assai più di ciò che si è veramente.
La nonna di Rasa, una benestante dalla mentalità fortemente tradizionale e accentrante, ad un certo punto della vicenda redarguisce il padre del ragazzo, ricordandogli "Hai una sola vita, una sola reputazione."
Come si fa a vivere tutta la propria esistenza così, in funzione di regole di rispettabilità che investono ogni ambito della propria quotidianità, persino ciò che si mangia o il luogo in cui si vive, il mestiere che si sceglie o i vestiti che si indossano? Per carità, non posso dire che la società italiana in cui viviamo non sia a sua volta impregnata di questa mentalità, anzi; purtroppo uno dei motivi per cui l'Italia è così arretrata rispetto al resto d'Europa è proprio questo orgoglio nazionale fatto di onore, famiglia patriarcale e buon nome, cioè che cosa dirà la gente. Ci si dovrebbe chiedere perché gli italiani abbiano tanti problemi a comprendere la cultura araba e a convivere serenamente quando la mentalità italiana stessa le si avvicina tanto...
Tuttavia l'Italia negli ultimi 50 anni ha fatto parecchi passi in avanti e non è più impossibile oggi pensare di poter scegliere il proprio lavoro, il proprio abbigliamento o il proprio partner in modo totalmente indipendente dalla famiglia. Una donna può scegliere di non sposarsi, o di avere un figlio da single: verrà tacciata di essere una poco di buono, ma non sarà isolata e massacrata psicologicamente al punto da dover scegliere di togliersi la vita o scappare. La convivenza fuori dal matrimonio è stata sdoganata, sull'omosessualità stiamo ancora lavorando e ci vorrà ancora qualche anno ma abbiamo speranza. Per me è inconcepibile rinunciare alla propria libertà o andare contro il proprio partner per far contenti genitori, nonni o parenti.
Leggendo le pagine di "Ultimo giro al Guapa" la famiglia araba mi è parsa un microcosmo soffocante e angosciante, pieno di doveri e privo di diritti. E' una condanna sia per gli uomini che per le donne, sia per chi non si è ancora sposato sia per chi ha già compiuto il necessario passo. C'è sempre qualcun altro da soddisfare, qualche altro tributo da pagare alla società. Almeno per quanto riguarda le famiglie più tradizionali, come quella descritta da Haddad, si tratta di un tormento senza fine. Più leggevo più montava in me un senso di intolleranza, quasi una reazione allergica al pensiero stesso.
Come dicevo all'inizio, l'ambientazione e i movimenti sociopolitici degli ultimi anni sono una parte importante della narrazione, ma non il fulcro. Il romanzo è, in fin dei conti, la storia di Rasa, un ragazzo giovane di buon famiglia ma con un passato doloroso di abbandono e deprivazione emotiva, e degli avvenimenti che, nel giro di 48 ore circa, lo porteranno a cambiare vita.
Rasa non è un uomo semplice, né dal mio punto di vista facile da amare. E' pieno di contraddizioni, di paure, di insicurezze, costantemente conteso tra la tradizione, rappresentata dalla nonna Teta che molto si aspetta da lui, e il desiderio di libertà e di autodeterminazione. Rasa è, in fin dei conti, ancora alla ricerca di una propria identità, di scoprire chi è veramente. La sua infanzia e adolescenza sono state costellate da avvenimenti traumatici e segreti, silenzi pesanti, domande che non potevano essere poste; e a tutto questo si aggiunge un altro dramma personale, un fatto difficile da accettare ma al tempo stesso la fonte dei suoi pochi momenti di vera gioia: Rasa infatti è omosessuale in un Paese in cui, per quelli come lui, non c'è posto.
La storia inizia dal mattino successivo a un avvenimento drammatico: la notte precedente la nonna ha sorpreso Rasa e il suo amante, il bel Taymour, a letto insieme. Per molti capitoli la narrazione scorrerà nell'atmosfera di tensione generata da questo avvenimento: sia in casa, tra Rasa e la nonna, sia tra Rasa e Taymour, che pare esserne rimasto scioccato.
Taymour viene presentato come il perfetto giovane arabo moderno. Bello, alto, elegante, ha studiato e ha una posizione già ben avviata nel mondo del lavoro. Viene da una famiglia abbiente e influente che rispetta e da cui si lascia guidare. E' indipendente, moderno nel vestire e nelle conoscenze, ma ancorato, nel profondo, alle tradizioni del suo Paese, tra cui l'importanza del matrimonio. Una condizione, questa, che manda assai in crisi la relazione con Rasa e la possibilità di vivere in modo anche solo minimamente libero la propria omosessualità.
Eppure la relazione tra Rasa e Taymour è reale, intensa e profonda. Non è un parto creativo della mente sempre in fermento di Rasa, non è finalizzata al solo sesso. Entrambi rischiano molto e hanno molto da perdere. Sembra però che nessuno dei due sia davvero disposto a fare il passo in più, che permetterebbe ai due di stare insieme pienamente: rinunciare alla propria cultura e abbandonare il Paese.
Nella mia immaginazione ho sempre considerato il medio oriente una regione in cui l'omosessualità è nascosta, negata, combattuta. Dal romanzo di Haddad pare che invece ci sia un notevole movimento underground. Nel corso del romanzo conosciamo altri giovani gay e lesbiche, scopriamo che il Guapa, da cui il titolo del libro, è un locale gestito da una lesbica ormai matura, che nella parte privata tiene spettacoli in drag. Veniamo a sapere che ci sono cinema in cui gli omosessuali possono incontrarsi, anche se spesso subiscono le retate della polizia. L'autore voleva parlare della condizione degli omosessuali nel mondo arabo perché lui per prima è gay e ha vissuto la difficile situazione di dover conciliare la sua vera natura con le proprie origini. Il conflitto tra pubblico e privato al momento non è sanato. Tanto è vero che "Ultimo giro al Guapa" è stato tradotto in molte lingue e pubblicato in tutto il mondo ma non in Kuwait, il Paese natale dell'autore.
Un ultimo focus che mi ha colpito è stato quello sull'essere arabo. Il tema dell'identità è centrale per tutto il corso della narrazione e l'identità personale è formata da tanti aspetti, quali quello sessuale, di cui ho appena discorso, ma anche quello culturale. Rasa ha grossi problemi col proprio essere arabo. Gli piace essere arabo, secondo me, ma non riesce a far pace con la libertà di diritti che vorrebbe, con l'idea di giusto e sbagliato che accompagna la sua cultura d'origine.
Il significato del proprio essere arabo verrà analizzato dal protagonista durante la sua permanenza negli Stati Uniti. Lì Haddad ci presenta un fenomeno che oggi è sotto gli occhi di tutti, con i foreign fighters: la percezione di sé dei giovani di cultura araba nati in Occidente. Nella fattispecie, Rasa incontra un giovane americano i cui genitori sono scappati dal medio oriente, un ragazzo all'apparenza alla moda e pienamente occidentalizzato, ma che di colpo comincia a cambiare e finisce per diventare un ortodosso tendente al fondamentalismo islamico. Proprio questo ragazzo accuserà Rasa di non essere "davvero arabo". Chiaramente ci si trova di fronte a un paradosso: da una parte un ragazzo nato in uno stato arabo che fatica ad ambientarsi in America, dall'altra un giovane americano che nei Paesi arabi non c'è nemmeno mai stato, ma che pretende di insegnare al primo cosa significhi davvero essere arabi.
Sinceramente non mi sono fatta un'idea chiara di cosa faccia scattare questo tipo di reazione folle in alcuni giovani, e ritengo che non ce l'abbia nemmeno l'autore, però è un punto su cui tutti, un pochino, dovremmo porci delle domande. Cosa ci rende davvero appartenenti alla nostra cultura di origine? Cosa ci fa sentire alieni?
Il finale del romanzo mi ha un po' deluso. L'avevo in parte previsto fin dal primo capitolo, in parte è colmo di casualità e sospesi, in parte fatico a riconoscere i protagonisti. Mi è sembrato un po' raffazzonato e allo stesso tempo tirato per i capelli. Insomma, mi ha un po' deluso sul finale, ma questo non vuol dire che il libro non mi abbia lasciato molti spunti forti di riflessione.
Sicuramente è un romanzo consigliatissimo a chi vuole cercare di capire qualcosa di più della mentalità araba contemporanea senza leggere per forza storie vere e report storici, soprattutto per chi vuole sentire una voce affidabile sulla condizione dei giovani e degli omosessuali. Un romanzo che lascia un po' di amaro e poca speranza, devo dire la verità, ma ci mostra anche come tante chiacchiere da bar non riescano davvero a comprendere la profondità dei conflitti presenti nel mondo arabo oggi e la complessità di qualsiasi risoluzione e rivoluzione. Insomma, un libro davvero attuale.
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