Ho comprato questo romanzo in un attacco di shopping compulsivo bibliofilo, qualche tempo fa. Una settimana dopo non vedevo altro che post online di recensioni entusiaste. Stupidamente mi ha un po' dato fastidio: sono egocentrica, avrei voluto scoprirlo da me quanto era bello questo libro. Inoltre, per una mia misantropia congenita, il fatto che fosse piaciuto a tante persone me l'ha subito posto sotto un'ombra di sospetto: possibile che tante persone apprezzino qualcosa di realmente bello? Non sarà un romanzetto facile nazionalpopolare?
Invece no, mi sbagliavo ad essere prevenuta. "L'Arminuta" di Donatella Di Pietrantonio è davvero bello.
1975, Abruzzo. La protagonista, che peculiarmente non avrà mai altro nome all'interno del romanzo se non il soprannome che dà al libro il titolo, l'Arminuta (cioè "colei che è ritornata"), ha 13 anni e vive tranquillamente in città con i suoi genitori, quando la madre si ammala. Solo allora scopre che quelli che chiama mamma e papà dalla più tenera infanzia non sono i suoi veri genitori, ma soltanto dei cugini alla lontana. Lo scopre perché hanno deciso di riconsegnarla alla sua vera famiglia, che vive in un paesino a qualche chilometro di distanza.
Per lei è uno shock terribile: di colpo non ha più punti di riferimento, perde amici, abitudini, tutto ciò che ha amato e che ha costituito la sua identità; si ritrova sbattuta in una casa che non conosce, dove si parla un dialetto stretto e aspro che fatica a capire, e dove regna la miseria più nera. Non solo ha due genitori, ma anche 4 fratelli e una sorella nuovi di zecca.
Così comincia l'avventura dell'Arminuta, una storia drammatica, di dolore e riscatto, di ricerca della verità e di se stessi in un mondo di adulti che sembra giocare con le vite dei giovani quasi fossero oggetti inanimati, senza volontà.
Il tema fondante del romanzo è senza dubbio la famiglia in senso più ampio e declinata in tutte le sue problematiche.
Cos'è davvero una madre? Cosa ci rende davvero famiglia? Conta davvero tanto il sangue o è più importante l'amore che si riceve? Sono domande piuttosto attuali, di cui tanto si è discusso negli ultimi anni e che restano ancora oggi lì sospese nell'aria, a dividere in due la popolazione italiana.
Ciò che Donatella Di Pietrantonio ha da dire è chiaro: di certo non basta mettere al mondo una creatura per esserne madre/padre; la genitorialità è un lavoro continuo e senza fine, è dedicare parte della propria vita a crescere un altro essere umano con tutte le risorse in nostro possesso. L'Arminuta, di madre, non ne ha in fondo nemmeno una: quella biologica ha accettato di darla in affido ad una parente lontana a soli pochi mesi di vita, mentre l'altra se ne è sbarazzata quando le cose in famiglia hanno cominciato a non andare più molto bene. Il vuoto lasciato da queste figure, soprattutto dalla seconda, Adalgisa, è mostruoso, e brucia dentro in un misto di rabbia e sconforto che va ad intaccare per sempre le fondamenta e l'autostima della ragazza.
Un'altra delle verità forti di questo romanzo è che anche l'essere fratelli e sorelle non dipende soltanto dal sangue. L'Arminuta si ritrova in una casa piena di fratelli e sorelle di sangue, ma per alcuni di loro non arriverà a provare mai nulla. Si affeziona soltanto a due, i più piccoli: Giuseppe, il fratellino, e Adriana, l'unica persona con cui crea un legame davvero forte e profondo all'interno della famiglia. E poi c'è Vincenzo. Vincenzo è il fratello maggiore, diciottenne dalla vita disordinata e l'atteggiamento da gangster. La relazione tra l'Arminuta e Vincenzo è assai più complessa e va a toccare situazioni e pensieri indicibili secondo la morale condivisa.
C'è tanta critica sociale, in questo romanzo, tanta riflessione su quanto l'ambiente influenzi il nostro destino e la nostra crescita. L'Arminuta è quasi un'aliena, tra i suoi fratelli: cresciuta in una casa della borghesia più agiata, con le migliori possibilità e genitori attenti all'educazione, è la prima della classe a scuola e ha aspirazioni per il proprio futuro. Dall'altra parte ci sono gli altri membri della famiglia, ignoranti e abbruttiti dalla fatica del lavoro quotidiano per portare in tavola piatti miseri, costretti ad accettare l'elemosina dei vicini e a fare debiti; per i suoi fratelli già andare a scuola è un lusso e infatti dei maschi soltanto Giuseppe, il più piccolo, finirà mai le scuole medie. L'Arminuta d'altra parte non condivide con la famiglia d'origine nemmeno la lingua, non sa fare i lavori di casa, non sa cucinare né badare ai fratelli più piccoli, mentre sua sorella Adriana, ancora alle elementari, gestisce la casa in assenza della madre con la naturalezza di un'adulta.
Sicuramente è un libro doloroso. Ci sono anche alcuni colpi di scena molto drammatici; in un caso l'autrice mi ha proprio colto di sorpresa, in un altro avevo già pensato a quell'eventualità ed ero preparata. Ad ogni modo lascia tanta amarezza in bocca e la sensazione di una giovane donna che, in futuro, ricostruirà se stessa e la propria costellazione di affetti ma non sarà mai più la stessa ragazzina spensierata allegra; quel sorriso, sulle labbra dell'Arminuta, non tornerà mai più per restare.
L'Italia ha bisogno di raccontarsi e di leggersi, di tramandare la memoria di ciò che è stata ed è oggi. Questo romanzo raccoglie un ultimo pezzetto di un Italia che è esistita soltanto fino agli anni '80 e poi si è piano piano evoluta, pur mantenendo sacche di povertà intellettuale ed emotiva preoccupanti. Abbiamo bisogno di emozionarci per l'Arminuta e di farci carico del suo dolore, per ricordarci da dove veniamo e risvegliare sentimenti di compassione vera, al giorno d'oggi, forse, un po' sopiti. L'Abruzzo ci ha regalato una brillante narratrice e consiglio caldamente di investire un po' del proprio tempo nell'assaporare questo romanzo.
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