Semplicemente un viaggio tra le mie letture, le mie impressioni e i libri che dormono sul mio comodino.
domenica 5 febbraio 2017
35. Henrik Ibsen - Una casa di bambola
Martedì scorso sono andata a teatro a vedere una rappresentazione di "Una casa di bambola" di Ibsen. Aspettavo questo evento da qualche mese, da quando cioè avevo letto il testo dell'opera teatrale, ed ero curiosa di osservare come questa potesse essere resa sul palcoscenico. E' stata un'esperienza interessante, anche se non del tutto soddisfacente.
"Casa di bambola" di Henrik Ibsen è uno di quei titoli imprescindibili, una delle opere teatrali che ha influenzato un'epoca, che ha fatto scuola.
Ibsen rappresenta la società borghese della seconda metà diciannovesimo secolo ed ambienta la storia in Norvegia, sua patria di origine.
I protagonisti sono Nora, giovane moglie e madre di tre bambini, e il marito Torvald, impeccabile funzionario statale neoeletto direttore di banca. Sembrano una coppia unita e innamorata, che condivide opinioni, sogni ed ideali; naturalmente questa è solo la superficie di una realtà molto più cupa e complessa, che porterà gli eventi a succedersi in un drammatico finale.
Il personaggio di Nora è senza ombra di dubbio il fulcro della narrazione. Nora è la tipica donna medio borghese di fine Ottocento: ritenuta incapace di lavorare e di essere indipendente, ella è l'oggetto dell'amore e delle cure del marito dopo esserlo stata del padre. Ricopre il suo ruolo di moglie premurosa e madre amorevole alla perfezione, pur con qualche piccolo sotterfugio per ricavare piccoli momenti di piacere tutti per sé.
E' una donna oggetto, quella descritta dall'autore, una proprietà dell'uomo, prima del padre e poi del marito. Una bambola, come lei stessa si definisce, con cui loro amano giocare, come lei stessa gioca coi propri bambini. Una moglie-figlia che però lasciata a sé stessa non ha alcuna capacità, alcuna volontà.
La rappresentazione di Nora ha guadagnato all'autore parecchie critiche ed è stato anche accusato, se così si può dire, di voler portare un messaggio femminista. Ecco, questo no; Ibsen non aveva alcuna volontà di esprimere solidarietà femminista; tutt'al più era affascinato dal concetto dell'autodeterminazione ed era probabilmente più interessante analizzarlo dal punto di vista di chi con più fatica poteva svincolarsi dal giogo della società dell'epoca: la donna.
Vale forse la pena ricordare che non si tratta della condizione femminile contemporanea: Nora non è una di quelle mogli che si fanno mantenere e si godono la bella vita senza alzare un dito; è che all'epoca l'unico posto della donna all'interno della società era quello di madre e moglie e se una dell'estrazione sociale di Nora e per di più sposata si fosse messa a lavorare avrebbe messo in imbarazzo la famiglia, marito in primis. Nora è costretta a farsi mantenere dal marito. Dipende da lui totalmente, come noi da adolescenti dipendiamo dai nostri genitori oggi. Così, tanto per dire...
Durante il dipanarsi della vicenda assistiamo allo scontro tra Nora e le istituzioni, la legge, quale espressione del mondo maschile che lei non capisce e non accetta. La legge, secondo Nora, è ingiusta, perché considererebbe e condannerebbe una persona per un crimine che lei invece ritiene un dono d'amore, un sacrificio con profonde giustificazioni. Le aspettative di Nora sulla vita sono tutte molto romantiche, non hanno un reale riscontro pratico, e per questo ne è scottata. Parallelamente tutti gli uomini della sua vita l'hanno delusa, hanno disatteso le speranze che riponeva in loro. Nora è a un punto di svolta nella vita perché ha rinunciato a se stessa fin dall'infanzia, non ha mai sviluppato il proprio carattere, delle idee personali; si è invece affidata completamente e ciecamente al maschile e quando Torvald perde l'aura di forza e giustizia che fino a quel momento incarnava per Nora crolla il mondo intero. Non ha più punti di riferimento, non sa più cosa è giusto, nemmeno in cosa credere o no: legge, religione, tutto deve essere ridiscusso, ridefinito.
Lungi dall'essere nel giusto, entrambi i protagonisti sono personaggi pieni di difetti. Nora è una bugiarda seriale, quasi patologica; incapace di rinunciare a fare ciò che le passa per la testa ma volendo allo stesso tempo apparire perfetta agli occhi del suo uomo, agisce sempre di nascosto, tramite sotterfugi, raccontando un sacco di menzogne pur di mantenere la facciata e far procedere il gioco di cui è oggetto.
Torvald invece è un uomo profondamente egoista, egocentrico, a sua volta imprigionato nel personaggio che la società gli ha richiesto e la cui maschera è orgoglioso di indossare: padre modello, marito perfetto, grande lavoratore instancabile e onestissimo. Si vanta di essere forte, capace di qualsiasi cosa per difendere la sua famiglia, di avere a cuore soltanto il loro bene. In verità quel che mano a mano appare evidente è che ciò che gli sta davvero a cuore è la propria reputazione, la propria posizione sociale. Il modo in cui tratta Nora è rivoltante, pur con tanta innocenza, senza accorgersene, perché in fondo Torvald non si è mai fermato un giorno a pensare che Nora potrebbe non essere d'accordo con lui. E perché dovrebbe, quando lei non ha mai pensato di imporsi su niente, di contraddirlo in niente?
L'anima nera di Torvald esce alla fine dell'opera, quando si mostra anche disonesto pur di salvare il proprio onore. E persino peggiore, forse, di coloro che disprezza tanto per aver compiuto atti più o meno disonesti, perché lui si sente anche moralmente superiore. Fino all'ultimo Torvald pensa di essere nel giusto, non vede il proprio peccato, e anche sul punto di perdere la propria donna ciò che gli preme sembra essere ciò che penserà di loro la gente.
Ciò che a me hanno lasciato entrambi è una grande sensazione di solitudine. Pur essendo sposati da anni Nora e Torvald non si conoscono per niente, non condividono nulla. Prima della tragica notte narrata da Ibsen non avevano mai nemmeno parlato seriamente faccia a faccia una volta... Viene da chiedersi quanto questo accadesse all'epoca e cosa spingesse una coppia a sposarsi senza nemmeno avere la curiosità di fermarsi per un attimo e scoprire che tipo di persona ci si sarebbe trovati in casa, nel letto. Ragioni economiche, sociali, l'attrazione fisica...sono tutte giustificazioni che posso comprendere, calate soprattutto nell'epoca storica, ma davvero non riesco ad accettare che due persone possano condividere momenti così intimi senza tuttavia raggiungere mai un vero punto di unione, di contatto profondo.
Ibsen fa una scelta forte nel finale della storia e per questo fu molto criticato. Fu addirittura obbligato a scrivere un finale alternativo, con una sorta di happy ending in cui Nora resta con la propria famiglia e la crisi viene dimenticata: in tutta onestà una porcheria bella e buona, che faceva venire il voltastomaco anche al buon Ibsen stesso. Diciamocelo: quello scritto nella versione originale è l'unico finale realistico e maturo accettabile. E mi piace il messaggio di speranza che porta con sé, nel dolore della scelta drastica: Nora e Torvald hanno finalmente una possibilità, un'occasione di diventare due persone adulte, di sbocciare e scoprire realmente se stessi.
La messa in scena a cui ho assistito è quella con Filippo Timi e Marina Rocco, per la regia di Andrée Ruth Shammah.
L'idea di questa versione è che Nora non sia tanto una vittima della situazione, come spesso viene descritta, quanto una manipolatrice, che utilizzando le proprie armi migliori, cioè la sua avvenenza, il suo corpo, la sua capacità di sedurre in modo apparentemente innocente, tiene legati a sé i tre personaggi maschili della storia. Questa lotta tra il femminile e il maschile è stata rappresentata dalla regista attraverso la scelta, piuttosto particolare, di fare interpretare tutti e tre i personaggi maschili principali allo stesso attore, Timi appunto. Alcune scene sono state per questo obbligatoriamente un poco modificate, perché i personaggi maschili non si devono mai incontrare in scena, ma secondo me questo non ha causato grande sconvolgimento nella trama.
L'interprete femminile è stata secondo me bravissima: intensa, perfettamente nella parte e senza mai sbagliare una battuta, ha incarnato una Nora tutta rosa, una bamboletta vera e propria, frivola e civettuola ma terribilmente triste.
Un po' meno bene, a mio parere, il grande protagonista della serata. Timi è famoso per aver preso parte a svariati film e sceneggiati televisivi, oltre che per il suo lavoro di doppiatore. Un uomo dalla buona presenza scenica, che dev'essere un grande intrattenitore e molto bravo a improvvisare, ma che nei momenti più seri e intensi mancava un po' di potenza e che si è impaperato nelle battute qualche volta di troppo. Divertente, ma a volte un po' fuori luogo nell'interpretare ruoli affatto buffi.
Mi ha anche lasciato perplessa la scelta della regista di sottolineare la capacità manipolatrice di Nora, di mettere persino in dubbio che tutto ciò che lei racconta sul palco sia verità. Sono d'accordo nell'affermare che Nora usi la propria avvenenza, le lusinghe e i sotterfugi per raggirare il marito, così come tutti gli altri personaggi del dramma; ciò che però va sottolineato è che la condizione di Nora è tale, in quanto donna, da non permetterle altra strada se non quella di fingersi una graziosa bambolina compiacente per difendersi e reclamare i propri spazi. L'accusa di Ibsen è, a mio avviso, da mirare al sistema, alla società che riduce uomini e donne a interpretare ruoli che li rendono fasulli, a portare maschere per rientrare nei parametri richiesti e infine a scontrarsi, come se non si potesse raggiungere l'autodeterminazione e l'indipendenza nel rispetto reciproco, se non nell'amore.
Comunque venga interpretata, ciò che più mi ha colpito di quest'opera è la forte connotazione critica all'imposizione dei ruoli femminili e maschili. Sottolineando che si sta parlando di un lavoro del 1879, venitemi poi a dire che il gender se lo sono inventato gli studiosi sfaccendati negli anni '70...
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