mercoledì 8 febbraio 2017

36. Grazia Deledda - La madre

Sul sentiero avventuroso dei Nobel per la letteratura, questa volta mi sono imbattuta in Grazia Deledda. No, scherzo, è stato totalmente casuale, tanto che l'ho scoperto solo a metà lettura che era stata insignita del premio. Però Grazia Deledda è uno di quei nomi che tanto si sentono citare, una delle grandi scrittrici della letteratura italiana del Novecento, ma non mi era mai capitato niente di suo tra le mani. Invece tra gli scaffali dei libri usati a metà prezzo ecco spuntare "La madre", romanzo breve (o racconto lungo) che ho letto tutto d'un fiato.

Necessaria premessa: tra gli autori italiani storici, uno dei miei preferiti in assoluto è Verga. Mi piace il Verismo, il Realismo e il Naturalismo, mi piace quel ruvido che sa di verità, quei dettagli a volte sgradevoli ma evocativi del reale, del vissuto. La Deledda scrive questo romanzo nel 1920, quindi non c'entra nulla con Verga e la sua Sicilia post-unione d'Italia, ma in lei ho ritrovato quell'odore di umanità che mi piace tanto. Capisco però che non a tutti questo vada a genio, quindi lo dico subito: se non piace il genere non potrà farvi impazzire l'opera della Deledda.
Chi invece ama la polvere sulle scarpe, le rughe di stanchezza sul volto, la semplicità della  vita vera di paese ritroverà in questo libro un breve viaggio nella Sardegna di inizio secolo.

La scrittura della Deledda è travolgente. Senza pause, senza interruzioni quasi, la scrittrice ci trasporta nelle vite di un giovane prete, Paulo, e di sua madre, che gli fa da perpetua. In un susseguirsi di scene che nel linguaggio del cinema definiremmo girate in un unico piano-sequenza, cioè in un'unica ripresa senza stacchi, in tempo reale, viviamo passando dalla mente dell'una all'altro poco più 24 ore della loro vita, una giornata soltanto che però porta a gravi scelte e grandi sconvolgimenti.

La storia è ambientata ad Aar, piccolissimo paesello (credo inventato, ma non ne sono certa) in provincia di Nuoro, la città natale dell'autrice. Così, descrivendo usi e costumi del luogo, superstizioni e mentalità, la Deledda ci presenta la sua gente, coloro tra i quali è cresciuta. Non risparmia loro nulla: ogni difetto, tutta l'ignoranza e la povertà, non soltanto materiale ed intellettuale ma anche emotiva di quella gente rustica e isolata dal mondo, sono descritte negli abitanti del paese in cui Paulo è stato mandato come parroco. La Sardegna è sempre stato un mondo isolato, lontano; almeno così l'ho sempre percepita. Vederla rappresentare sulle pagine di un romanzo mi ha dato la possibilità di assaporarne gli odori (non sempre gradevoli), ammirarne i colori e ascoltarne i suoni. A tratti, nelle descrizioni dettagliate che l'autrice ne fa, mi è sembrato persino di sentirne il vento sulle braccia, sulla schiena.

La natura è violenta, aspra in Sardegna, così come le persone sono sanguigne, testarde. La Deledda non vuole denigrarne gli abitanti, ma non edulcora nemmeno la pillola. Li riporta così come lei li vede, nel bene e nel male, mettendone in luce soprattutto la semplicità, la schiettezza di intenti e sentimenti. E pur nella durezza di alcuni passaggi, l'autrice mostra una dolcezza, quasi uno sguardo pietoso nei confronti dei suoi personaggi, dei quali a volte sembra compatire la sorte. Sono i più fragili e soli ad attirare l'attenzione della Deledda: la ragazzina orfana e senza risorse, la prostituta, il vecchio cacciatore solitario, la ricca donna nubile. E naturalmente il prete, Paulo, che nella sua scelta di vita sacerdotale racchiude proprio il nocciolo di questa solitudine forzata, che col tempo può diventare un fardello gravoso.

Attraverso gli eventi che vedono coinvolti i protagonisti la scrittrice coglie l'occasione di riflettere su molte tematiche: l'amore, la famiglia, la morte, il valore delle nostre scelte e delle promesse fatte, il desiderio di ciò che non si può avere, la capacità di accettare le conseguenze delle nostre azioni. La giornata raccontata riserva montagne russe di angosce e colpi di scena, fino al finale, totalmente spiazzante, che nella sua crudezza getta su tutte le altre preoccupazioni una diversa prospettiva.

Non è un romanzo che colpisce come un pugno nello stomaco ma nemmeno uno che ci coccola l'animo. E' un racconto burrascoso, come il vento che soffia in apertura, che lascia in bocca l'amaro della sconfitta in ogni caso e allo stesso tempo l'apertura a un futuro che potrà essere diverso o bruciarsi nell'incapacità di reagire.

Molte persone mi avevano parlato di Grazia Deledda con poco entusiasmo. Non ho letto nessun altro suo libro, in particolare non ho ancora letto "Canne al vento", che da quanto ho potuto capire è il suo capolavoro; tuttavia il primo impatto è stato molto positivo. Una scrittura semplice e incisiva, che coinvolge i sensi e che scivola veloce, portando con sé il lettore pagina dopo pagina. Credo avrò molto piacere di approfondire la conoscenza...

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