Non si può davvero definire "Agostino" un romanzo, quanto un racconto lungo (126 pagine), diviso in quattro parti. Il titolo altro non è che il nome del protagonista, un ragazzo di tredici anni di famiglia agiata in vacanza con la madre al mare. Orfano di padre, la madre rappresenta tutto il suo mondo familiare, la sua sicurezza e l'amore incondizionato e puro. Questo finché non arriva una figura maschile ad interporsi tra lei ed Agostino, un giovane per cui la madre cambia atteggiamento e si rivela donna.
"Agostino" è una storia di iniziazioni, di scoperte del mondo e di passaggio dall'innocente ignoranza fanciullesca alla dolorosa e tormentata consapevolezza adolescenziale.
La prima iniziazione è quella sessuale. Agostino, grazie ad un gruppetto di ragazzi del paese, scopre l'amore fisico, carnale, e si rende conto che sua madre è, ahimè, una donna, e pure desiderabile. La tematica edipica è fortissima e trattata magistralmente. Nel momento in cui Agostino scopre il significato dei gesti, degli atteggiamenti e più in generale dei rapporti tra uomo e donna (e di conseguenza della madre col bellimbusto, non a caso entrambi senza nome) si accende dentro di lui qualcosa di mai provato prima, di sconosciuto ed inesplorato. Giunto completamente innocente fino a 13 anni, per Agostino è il momento di fare i conti con le proprie pulsioni sessuali, e ancora prima con le proprie fantasie erotiche. Sì, perché di fisico c'è davvero poco in questo romanzo, mentre molto è pensato, fantasticato, immaginato, come il vedo-non vedo delle vestaglie indossate dalle donne nella storia.
Non concordo con l'introduzione al romanzo, che vede Agostino andare "pericolosamente vicino al desiderio edipico": Agostino nel desiderio edipico ci sguazza fino al collo, ed è proprio questo il suo tormento e la fonte del suo malessere. Una volta presa consapevolezza del fatto che la madre è una donna e come tale desiderabile e desiderosa di contatto sessuale a sua volta, Agostino lavora con tutte le sue forze per cercare di mettere tra loro una barriera, una distanza che gli restituisca la serenità.
Gli pareva che il giorno in cui non avesse visto in sua madre che la bella persona che ci scorgevano il Saro e i ragazzi, ogni infelicità sarebbe scomparsa; e si accaniva a ricercare le occasioni che lo confermassero in questa convinzione. Ma con il solo risultato di sostituire la crudeltà all'antica riverenza e la sensualità all'affetto.
La madre, come in passato, non si nascondeva in casa dai suoi occhi di cui non avvertiva lo sguardo cambiato; e maternamente impudica, pareva ad Agostino che quasi lo provocasse e lo ricercasse. [...] Si ripeteva "Non è che una donna," con un'indifferenza obbiettiva di conoscitore; ma un momento dopo, non sopportando più l'inconsapevolezza materna e la propria attenzione, avrebbe voluto gridarle: "Copriti, lasciami, non farti più vedere, non sono più quello di un tempo."
Agostino cerca per tutto il romanzo, invano, di esorcizzare questa nuova sessualità. Alla fine dovrà accettare che non è giunto ancora il momento, per lui, di viverla attivamente, ma dovrà sopportare il peso di queste fantasie per il resto della sua adolescenza.
Gli artefici del cambiamento in Agostino sono una banda di ragazzotti di Viareggio, dove lui sta trascorrendo le vacanze. Il gruppo è quanto di più dissimile da ciò che lui è e dal mondo in cui normalmente vive, in cui è cresciuto e di cui fa parte. Sono villani nel senso più letterale, paesani rozzi e violenti. Sono ragazzi delle classi sociali più basse. Agostino non aveva mai trascorso del tempo con ragazzi come questi, prima, e vive una costante contrapposizione di sentimenti: li disprezza, li trova sporchi, rudi e volgari, inferiori, eppure desidera stare con loro, diventare uno di loro, partecipare ai loro giochi, ai loro divertimenti. L'imbruttimento di Agostino, la maschera che sceglie di indossare nella speranza di essere accettato, cosa che non avverrà mai, è la seconda iniziazione all'interno del libro. In quanto bambino non aveva mai pensato che altri fanciulli della sua età potessero essere diversi. Non aveva mai preso in considerazione la vita di chi non era fortunato come lui, perché non sapeva nemmeno esistesse un'altra vita. Non è un'esistenza che gli piace davvero, perché spesso la sua tentazione profonda è di allontanarsi anche dai pari, ma essi sono qualcosa di diverso e lo straniamento che prova in loro compagnia lo distrae un po' dal disagio che vive in casa.
Moravia descrive questi ragazzi con un occhio critico che rivela un certo disgusto, un senso dell'inferiorità di questa masnada di adolescenti.
Erano, contro lo sfondo delle canne verdi in parte bruni e in parte bianchi, di una bianchezza squallida e villosa, dall'inguine fino ala pancia; e questa bianchezza rivelava nei loro corpi quel non so che di storto, di sgraziato e di eccessivamente muscoloso che è proprio della gente che fatica manualmente.
Leggendo descrizioni come queste ho pensato a Pasolini e a "Ragazzi di vita" che lessi un paio d'anni fa. Là gli stessi ragazzi venivano descritti con simpatia e un velo di desiderio, qui Moravia li presenta come fisicamente menomati dalla propria condizione sociale, quasi che il ceto si trasmettesse per via genetica.
Infine c'è una terza iniziazione brutale per Agostino: la presa di consapevolezza del male. Fino a quel momento Agostino era stato chiuso nella sua bolla di cristallo, protetto dalle brutture, dalla scorrettezza, da chi avrebbe anche voluto fargli del male. Invece scappando dal grembo materno trova una compagnia di ragazzi che rubano, che mentono sfacciatamente, che si picchiano e sono pronti a umiliarlo senza un vero perché, se non per divertirsi. Scopre la deformità fisica, il mondo della prostituzione, la trasgressione del fumo e dell'alcool e subisce le attenzioni di un pederasta. Agostino è sconvolto da tutte queste brutture, soprattutto dall'ultimo evento, che lo imbarazza e gli attira le beffe dei compagni; tuttavia ne è attratto, come se se ne volesse immergere completamente, perché sente che questo passaggio lo renderà uomo.
La conclusione ha un che di doloroso per il ragazzo: dovrà prendere atto della fine della propria spensierata fanciullezza e dell'inizio di un'età più dolorosa e cupa: l'adolescenza. Moravia presenta magistralmente questo periodo della vita come una fase di passaggio, di trasformazione, in cui si smette di essere bambini, si scopre il brutto del mondo e il disagio di essere se stessi, ma ancora non si è adulti e non si può vivere come si vuole, liberi di esplorare e costruirsi un'identità. Da qui, dalla consapevolezza degli anni che dovranno passare prima di essere riconosciuti come adulti, nasce il tormento adolescenziale. C'è un unico lato positivo: se, come Agostino, si ha il coraggio di alzare la voce e chiedere al mondo di riconoscerci come nuovi, diversi, il mondo potrebbe ascoltarci e iniziare a trattarci da uomini e non da bambini.
Questo romanzo fu pubblicato da Moravia nel 1945, anche se fu scritto qualche anno prima, durante il fascismo, quando lo scrittore subì una censura totale da parte del regime. E' la prima opera di quest'autore che leggo e so che non ebbe lo stesso incredibile successo di romanzi quali "Gli indifferenti" o "La romana", ma come primo contatto direi che è stato perfetto. Un libro veloce, godibile, che a tratti mi ha ricordato l'atmosfera soffocante di "Morte a Venezia" di Mann e che in poche pagine è stato capace di mettere in scena una metamorfosi coinvolgente nel suo dolore.
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