sabato 30 aprile 2016

10. John Steinbeck - Uomini e topi

Più riguardo a Uomini e topiCi sono libri che tutti conoscono, almeno per sentito dire. Ci sono romanzi e autori che vanno letti: per conoscenza, per cultura generale, perché fanno parte del patrimonio letterario della nostra società. Steinbeck è senza dubbio uno di questi e quando il gruppo di lettura ha scelto di affrontarne la lettura ne sono stata contenta. E allo stesso tempo un brivido mi è sceso giù per la schiena.
Leggere opere come questa è uno dei motivi principali per cui ho così fortemente voluto che si formasse un gruppo di lettura dedicato ai classici. Ho grandi lacune in merito e questo mi ha spesso fatto sentire in imbarazzo. Steinbeck è un autore che purtroppo non si studia a scuola né all'università, a meno che non si scelga di sostenere un esame in letteratura nordamericana. Eppure è inaccettabile non averne mai letto qualcosa, soprattutto per chi, come me, fa dell'inglese, e della cultura ad esso legata di conseguenza, la propria professione.
Tuttavia ci sono autori che ho temuto e temo, forse per pregiudizio che non per reale difficoltà di lettura.

"Uomini e topi" è un romanzo duro, drammatico, non facile da digerire; eppure è breve, scritto in modo scorrevole e dinamico. Personalmente, l'ho letto in tre giorni, sorpresa da quanto velocemente le pagine volassero e con crescente ansia, prevedendo un finale tutt'altro che lieto.
Alla fine devo dire che ho capito perché questo è considerato un grande romanzo, sono contenta di averlo letto e ritengo sia davvero ben scritto, ma non posso dire che mi sia piaciuto. Nessuno credo possa affermare una cosa simile, perché la povertà e la drammaticità della condizione umana in esso descritta non può piacere. Ci sono momenti tra le pagine che sono un pugno nello stomaco, ci sono scene che mi hanno fatto stringere i denti, che mi hanno fatto pensare di chiudere il libro e metterlo via, perché non volevo leggere oltre, perché era disturbante. Ma non è forse parte della finalità della grande letteratura essere disturbante, mostrare qualcosa che si nasconde nelle pieghe dell'animo umano e che spesso preferiremmo ignorare? Questo "Uomini e topi" lo fa benissimo.

Il curioso titolo deriva da una poesia del poeta scozzese Robert Burns, "To a mouse" ("A un topo").

"The best laid schemes o' mice an' men / Gang aft agley"
(I piani meglio architettati di topi e uomini / vanno spesso a finir male)

E' un peccato che il libro non riporti questa citazione, magari in apertura, perché dà una visione molto più chiara del tema fondamentale del romanzo: i sogni spezzati, i desideri irrealizzabili, la ricerca di una felicità inafferrabile. 
Steinbeck scrive in un periodo molto delicato della storia americana, vale a dire subito dopo la Grande Depressione. Nel '29 l'America si era svegliata dai sogni di ricchezza e dovette fare i conti con una crisi economica drammatica, che spinse migliaia di persone in condizioni di estrema povertà a spostarsi da una parte all'altra della nazione alla ricerca di un lavoro e del sostentamento minimo per sopravvivere. Le fasce più colpite della società furono quelle legate all'agricoltura, innanzitutto perché la sovraproduzione agricola del primo dopoguerra aveva influito non poco sulla crisi. Inoltre dal 1931 al 1939 gran parte dei territori dediti alle colture furono piagati dal fenomeno conosciuto come Dust Bowl, vale a dire un impressionante susseguirsi di tempeste di sabbia, causate da metodi agricoli inadeguati che avevano impoverito il terreno uniti a una fortissima siccità.
I protagonisti di questo romanzo, George e Lennie, sono proprio due braccianti, due uomini soli che vivono in California e si mantengono passando da un ranch all'altro in cerca di lavoro. Il termine giusto per descriverli è "hobo", vagabondi, senzatetto che migrano per il Paese in cerca di fortuna lavorativa. George e Lennie hanno un sogno, che coltivano insieme e che motiva tutto il loro faticare nei campi: quello di essere un giorno indipendenti, possedere un terreno proprio e una casa e non dover più lavorare sotto padrone, elemosinando un lavoro e un tetto per la notte.

Come ho già detto in precedenza, i sogni e il loro crollo sono il tema portante del romanzo. Quasi tutti i personaggi hanno nel cuore un desiderio e lo manifestano nel corso della storia. Il fato però non permette loro di ottenere ciò che vorrebbero, nonostante tutti i loro sforzi.
Altro tema portante è la solitudine. La maggior parte dei personaggi sono soli, solitari, e viene ribadito più volte come sia strano che George e Lennie, due uomini nemmeno parenti tra loro, abbiano deciso di viaggiare insieme. Eppure questi sono gli stessi uomini che dichiarano come la solitudine porti alla pazzia. All'interno delle vicende c'è un continuo movimento a fisarmonica di avvicinamento e allontanamento, persone che si cercano e non si trovano, che si uniscono ma che poi si separano di nuovo, ognuno ripiegato su se stesso.
Il personaggio che più mi ha colpito, e che in parte si sgancia da queste dinamiche, è Slim, l'uomo a capo dei lavoranti e che tutti, animali e uomini, stimano e riconoscono come leader non per la sua posizione sociale, ma per professionalità ed esperienza. Un uomo che questo ruolo se l'è guadagnato. Mi sarei aspettata un uomo duro, usurato dal lavoro e dalla necessità di mantenere il proprio ruolo; invece Steinbeck descrive un uomo tranquillo, quasi dolce, capace di ascoltare, di osservare e di comprendere profondamente gli altri, rispettandoli. L'incarnazione dell'autorevolezza. Una delle pochissime figure positive, a mio avviso, del romanzo.

Lo stile narrativo è particolarmente dinamico perché l'autore aveva inizialmente pensato questo racconto come un testo teatrale e in effetti si presta bene all'interpretazione, con le ridottissime parti descrittive e i dialoghi vivaci, a botta e risposta. Anche la scena è molto statica, con pochi cambi di ambientazione.
Non avendo letto altro di Steinbeck non posso sapere se questo modo di narrare si ritrovi anche nelle altre opere, ma nel caso specifico la scrittura mi ha colpito in modo positivo.

Scritto nel 1937, in Italia è arrivato in traduzione di Cesare Pavese. Io stessa l'ho letto in questa versione e, per quanto sia stato interessante vedere un nostro grande autore in una veste diversa, trovo che l'opera non sia perfetta. Al di là di termini oggi desueti e un linguaggio genericamente datato, alcuni passi parevano un po' meccanici e lasciavano un tantino a desiderare... Sorry, Cesare, ma ti vogliamo bene lo stesso!

Probabilmente dovremmo tutti dedicare un momento della nostra vita alla riscoperta di questo autore e dell'America sofferente da lui descritta. Questo libro ha una profondità e un'aura di dolore notevoli, quindi forse non è una lettura da periodo depresso; non è certo un libro facile, ma è vero, realistico e intenso.

4 commenti:

  1. Riesci sempre a fare dei post davvero davvero belli, mi sa che sei proprio una divulgatrice/insegnante nata.

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    1. Sei molto carina, ma credo che il tuo giudizio sia annebbiato dalla stanchezza dello studio matto e disperatissimo necessario ad essere davvero una brava insegnante...
      Sono comunque contenta che i miei commentini abbiano un senso!

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  2. Antonella ha individuato puntualmente il tuo talento: essere una divulgatrice nata, nel senso che sei molto brava e chiara nell'organizzazione ed espressione di quello che pensi; ti trovo illuminante.

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