martedì 24 ottobre 2017

70. Ishmael Beah - Memorie di un soldato bambino


Ishmael Beah era solo un ragazzino di dodici anni quando la guerra gli è piombata addosso. Un ragazzetto normale, come quelli che si possono incontrare per le strade delle nostre città anche qui in Italia. Aveva una passione, la musica rap, si vestiva con stile cercando di emulare i suoi miti hip hop, passava il tempo imparando a memoria i testi delle canzoni con un gruppo di amici affiatatissimo. Sì, andava anche a scuola, come fanno tutti, anche se non ne aveva sempre tanta voglia, e aveva qualche problemino in famiglia, perché papà e mamma avevano divorziato e mamma abitava in un villaggio vicino insieme al fratellino più piccolo, mentre Ishmael e suo fratello più grande erano stati lasciati a vivere col papà e la sua nuova moglie, che con loro non aveva proprio un buon rapporto...
Che cosa distingue questo ragazzino simpatico e un po' scavezzacollo dai tanti preadolescenti che conosciamo? Be', tanto per cominciare il fatto che Ishmael vivesse in Africa, più precisamente in Sierra Leone, all'epoca di questa storia. L'altro dettaglio è che tutte le persone di cui ho parlato, a parte Ishmael, non esistono più. Sono stati spazzati via dalla guerra civile, all'improvviso, tutti tranne lui, che forse ha subito una sorte persino peggiore: dopo aver visto la morte in faccia, aver camminato fino a non poter più muovere le gambe ed essere quasi morto di fame, Ishmael è stato obbligato a diventare un soldato bambino.
La storia di Ishmael, nonostante lo stile scorrevole, chiaro e coinvolgente, non è una delle tante inventate per scrivere un bel romanzo avventuroso; di bello non c'è proprio nulla in una storia come questa, perché è vera e racconta un mondo tragico, una disumanità mostruosa, ma che ancora oggi è la quotidianità di milioni di persone in giro per il mondo. Ishmael ce l'ha fatta, è sopravvissuto (se no non avrebbe potuto scrivere questo libro...) ma i segni di ciò che ha visto e ha fatto resteranno con lui e in lui per sempre, non potrà mai dimenticare né cancellare la verità: soltanto venire a patti con essa e imparare a sopravvivere, poi a vivere, guardare avanti...
Oggi Ishmael vive negli Stati Uniti, il suo nuovo Paese, la casa che l'ha accolto, grazie a una donna coraggiosa e generosa che l'ha preso con sé senza esitazione quando lui non aveva più nessuno a cui affidarsi. Ha potuto studiare, si è sposato. Lieto fine, insomma. Sono stata felice di vedere che questo giovane, mio coetaneo, ha trovato una via d'uscita dal proprio passato, perché mi ha dato speranza, non solo per lui ma per tutti coloro che si trovano e si troveranno nei suoi panni, perché non è mai detta l'ultima parola e anche dall'inferno si può uscire vivi.
Ma torniamo un passo indietro.

E' il 1993. Ishmael vive in un villaggio del sud della Sierra Leone, Mogbwemo. E' un giorno normalissimo e lui se ne sta tranquillo coi suoi amici, anche se si dice che alcuni villaggi siano stati attaccati dai soldati ribelli. Loro però non danno molto peso a queste notizie; se fosse vero e ci fosse pericolo le loro famiglie si sarebbero mosse, no? Invece tutto scorre normalmente e quel giorno Ishmael e i suoi amici decidono di marinare la scuola, per recarsi in un villaggio vicino a fare uno "spettacolo rap". Mettono la loro musica americana, rappano sulla voce dei loro idoli e ballano, intrattenendo i passanti. Si divertono e alla gente piace, soprattutto ai ragazzini. Sono conosciuti lì attorno. Poi di colpo arriva una notizia incomprensibile: Mogbwemo è stata attaccata, distrutta, gli abitanti sono in fuga e molti sono morti, uccisi dai ribelli. Ishmael e i suoi amici non possono credere alle loro orecchie: la loro famiglia, tutto ciò che hanno al mondo è appena andato distrutto.
Né le brutte notizie finiscono lì: i ribelli sono in marcia, si spostano, continuano ad avanzare perché hanno bisogno di cibo, munizioni e uomini, quindi bisogna scappare, perché arriveranno presto anche lì. Inizia così la lunga migrazione di Ishmael, che perde i suoi amici e li ritrova, rimane nuovamente solo e si perde nella foresta, trova nuovi amici e un villaggio sicuro e poi si ritrova di nuovo, in un secondo, in mezzo alla guerra.
Sembra quasi che lo segua, quella guerra maledetta. Ovunque vada, per quanto si nasconda quella lo stana sempre, gli sta dietro fino a che lui non scapperà dal Paese, attraversando il confine con la Guinea, a nord, in un ultimo viaggio della speranza che infine lo porterà, rifugiato, negli Stati Uniti.

La storia di Ishmael è straziante. Attorno a lui succedono cose agghiaccianti, la morte è ovunque, la violenza è inimmaginabile. Lui è soltanto un bambino ma si ritrova solo e cerca di sopravvivere come può. Ogni capitolo che passa sembra che i suoi sforzi vadano nella direzione giusta, poi di colpo arriva qualcosa di peggio. Ho pensato seriamente che io mi sarei arresa, verso la metà, quando il destino pare giocargli uno scherzo peggiore degli altri. Invece Ishmael è resiliente. E' forte, è determinato, vuole sopravvivere. Forse sarà proprio questa resilienza a farlo arrivare fino in fondo, almeno in parte, a tenere insieme i pezzi di un'anima molto ferita.

Ci sono due cose che mi hanno colpito molto in questo libro, a parte la crudezza di alcune immagini e la violenza gratuita, perché quelle in un libro così le do quasi per scontate.
La prima è che per buona parte del libro il lettore identifica i cattivi con i ribelli che hanno distrutto il villaggio di Mogbwemo; tuttavia non saranno loro a fare di Ishmael un soldato bambino, ma l'esercito regolare sierraleonese. I buoni mandati a difendere l'ordine obbligheranno tutti i maschi in grado di prendere in mano un fucile a diventare soldati, insegneranno loro a sparare, a strisciare nel fango e a tagliare la gola ad un uomo, daranno loro droga in grandi quantità e li porteranno a fare strage di altri combattenti e inermi civili.
Credo che sia uno di quei punti dolenti con cui si deve confrontare, ad un certo punto, qualsiasi pubblico adulto: nella storia, quella vera, i buoni e i cattivi non esistono, non nell'accezione che noi diamo al termine. Sia una parte sia l'altra sono fondamentalmente grigie, hanno ragione e sono colpevoli allo stesso tempo, sebbene chi è a capo delle più importanti decisioni abbia sicuramente una responsabilità, in positivo o in negativo, più definita. Hitler era cattivo, ma anche Truman e Stalin non scherzavano. Il discorso è complicato, molto più di quanto possa essere commentato così, con due parole su un blog, ma questo libro trabocca di questa verità: i soldati bambini di cui fa parte Ishmael non sono né più buoni né più cattivi di quelli catturati dai ribelli e, con gli stessi identici mezzi, costretti a combattere contro l'esercito. Sono tutti innocenti, vittime di carnefici spietati che li usano come pedine sacrificabili e ne deturpano il fisico e la psiche senza battere ciglio, e allo stesso tempo sono ovviamente colpevoli di non essersi sottratti, a costo di morire, di aver accettato di uccidere qualcun altro, spesso in modo efferato, per sopravvivere.
Ad ogni modo questo racconto ci dà anche una visione più realistica della situazione in Africa, nelle zone in cui si parla di guerra civile: spesso l'esercito che si ritrova a difendere l'ordine è peggio in arnese delle truppe ribelli, spesso è composto da persone che non hanno una formazione militare seria e quasi sempre si scontrano con gli stessi livelli di violenza e scorrettezza. Non c'è una linea di condotta, c'è solo la necessità di portare a casa la vittoria per sottrarre al nemico vettovaglie e munizioni.

La seconda cosa che mi ha colpito è il racconto di quando Ishmael viene salvato dalla boscaglia, portato via da un gruppo di volontari dell'Unicef e inserito in una comunità protetta per il recupero di bambini soldato. E' il 1996, sono passati 3 anni dall'inizio della guerra per Ishmael e lui è molto cambiato, così come tutto il mondo attorno a lui. Ciò che mi ha colpito è la violenza che lui e i suoi compagni esternano in continuazione una volta portati in salvo. Sono arrabbiati, drogati in crisi d'astinenza, sono contrariati: vorrebbero tornare a combattere, ormai è quello il loro posto, si sentono al sicuro solo con un fucile sulla spalla. Allora insultano, aggrediscono, distruggono. Infrangono le regole del centro ancora e ancora, forse sperando di essere mandati via, rimandati nella foresta; tuttavia non succede. Il personale è gentile e sorridente nonostante tutto, i materiali distrutti vengono quotidianamente riforniti, i loro eccessi violenti perdonati una volta passati. Ho ammirato questi eroi, gente che ha scelto di stare così sul fronte, a combattere ogni giorno perché almeno uno di tutti questi ragazzi riscoprisse la propria umanità e potesse essere reinserito in società. Che forza di carattere, che animo... Io non sarei mai in grado di sopportare di lavorare in una condizione simile, sarei vissuta nel costante terrore di essere aggredita, avrei reagito per difendermi e avrei potuto dire cose di cui mi sarei poi pentita, probabilmente. Davvero sono queste le persone che, con la loro perseveranza e il loro spendersi per gli altri, soprattutto per i più giovani, cambiano il mondo.
La comunità in cui Ishmael è stato inserito gli ha salvato la vita, su questo non c'è dubbio. Gli ha restituito prima di tutto la capacità di provare emozioni, di affezionarsi, di affidarsi, di sognare un futuro.
Questo momento della vita di Ishmael mi ha fatto pensare a quanti oggi vivono la guerra, chi si ritrova a scappare per salvarsi la pelle e chi deve uccidere per farlo, ma anche chi magari la guerra l'ha vista solo di sfuggita, ma ha passato mesi, a volte anni, nell'angoscia di una morte incombente. Tante volte i rifugiati che arrivano in Europa dall'Africa o dal Medio-Oriente hanno comportamenti antisociali, aggressivi o genericamente maleducati, usano la forza per imporsi e commettono reati. Possiamo far finta che non sia vero ma è così. Quello che però è anche vero e la gente pare non ricordare mai è che questa gente nella maggioranza dei casi ha vissuto esperienze così traumatiche da non essere più se stessa: hanno dovuto spegnere la loro parte umana per sopravvivere alla violenza e una volta che i sentimenti sono addormentati quello che esce è l'istinto ferino, in totale mancanza di empatia. Molte di queste persone sono in stato di shock, hanno gravi sindromi post-traumatiche e avrebbero bisogno di lunghe cure psicologiche per ritornare alla normalità. Purtroppo non ci sono i soldi né le strutture per sostenere questo sforzo e questa povera gente viene lasciata a se stessa e finisce per farsi sopraffare dalla paura che si trasforma in rabbia, dai ricordi della violenza che diventano aggressività incontrollata.
Ciononostante c'è una via d'uscita, ce l'ha mostrata proprio questo libro: dall'inferno si esce, se aiutati, le ferite possono rimarginarsi e la psiche ricomporsi. C'è speranza, tanta speranza, e vita e amore. Con il carico di dolore che portava con sé questo libro sono contenta che il messaggio sia alla fine uno di speranza, di sopravvivenza, e non di compatimento e di morte.

Noi in Europa di tutte le guerre africane degli ultimi cinquant'anni sappiamo poco e niente, anzi non sappiamo praticamente nulla nemmeno di quelle in corso. Fatichiamo a capire le ragioni, le rivalse territoriali di tribù dai nomi per noi strani che si fondono a lotte religiose e a rivolte politiche spesso orchestrate ad arte da qualche riccone per il possesso delle risorse del Paese. La Sierra Leone è una nazione relativamente piccola, schiacciata tra tanti altri stati fondati dagli Europei, e ha una triste storia legata al traffico degli schiavi. Freetown, la capitale della Sierra Leone, ha un nome benaugurante, che voleva essere l'incarnazione della speranza nel futuro di chi, dall'America, era tornato in patria nuovamente un uomo libero. Invece la violenza ha prevalso ancora e il Paese non è molto stabile politicamente nemmeno adesso, sebbene la guerra civile sia conclusa.
Forse è proprio nel leggere storie africane che il mio giro del mondo letterario acquista maggiormente senso: scoprire la storia che abbiamo ignorato, i popoli che abbiamo dimenticato, e dare un volto ai tanti milioni di persone che vivono in quel continente senza avere una chiara voce. Ho molti altri libri sull'Africa da leggere e molti parlano, ahimè, di guerra. Spero mi diano tanto quanto Ishmael Beah in "Memorie di un soldato bambino".

3 commenti:

  1. Ecco, questo è un libro che non credo riuscirei a leggere. Grazie di averne parlato e di averne condiviso considerazioni preziose.
    Anche a noi insegnanti capitano (sempre più spesso) alunni oppositivi, che magari hanno attraversato l'inferno e troppo spesso ci fermiamo al giudizio sul loro comportamento e non abbiamo tempo e voglia di comprenderne le cause né tanto meno di pensare a cosa possiamo fare per il loro bene. Ecco, c'è di che riflettere.

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    1. Guarda, il problema vero (e il messaggio piuttosto chiaro che ho colto in quel passaggio del libro) è che chi ha subito grandi traumi, in particolare traumi psicologici violenti, ha molto spesso reazioni a sua volta violente anche molto intense e, in generale, vive le relazioni umane in maniera profondamente problematica, perché non vuole fidarsi/affidarsi all'altro. Dicevo, il problema è che per "guarire" da queste problematiche bisognerebbe essere seguiti in maniera costante, in un ambiente protetto, da specialisti. Cioè, non è che ti passa facendo la vita di tutti i giorni, inserito in società, relazionandoti con un sacco di gente. Perché le problematiche sono tali da impedire quel tipo di recupero.
      Noi a scuola non sempre abbiamo alunni oppositivi così gravi, ovviamente, ma anche una sofferenza psicologica differente può dare vita a comportamenti molti antisociali. Servirebbero però cliniche popolate da psicologi full time, non famiglia (spesso disfunzionale), scuola, professori a volte preparati e a volte no, studenti a volte amichevoli e a volte disturbati quanto i compagni, ecc ecc...
      Finché si cerca di gestire le problematiche "alla meno peggio", come sempre in Italia si usa fare, non se ne esce e i ragazzi rimangono antisociali. Al massimo un po' meno violenti sul lungo termine, se sono particolarmente fortunati...

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