giovedì 2 febbraio 2017

34. Tahar Ben Jelloun - Il matrimonio di piacere

Cos'è il razzismo?
Ci ha riflettuto tanto Tahar Ben Jelloun, autore marocchino, francese di adozione, che negli anni ha scritto tanti libri dedicati proprio al tema dell'immigrazione, del razzismo e del mondo islamico contemporaneo. Il suo ultimo romanzo, "Il matrimonio di piacere" è curioso perché ci fa, da europei, vestire i panni del doppiamente discriminato: già, perché mentre da noi in Europa i marocchini sono considerati africani come tutti gli altri e di certo non bianchi, in Marocco i suddetti abitanti si considerano bianchissimi, proprio come noi, e schifano i neri, che invece sono africani, sporchi, inferiori. I discriminati che discriminano sono un punto di vista davvero peculiare, che mette in una prospettiva a suo modo ironica tutto il razzismo che nei Paesi europei viene riservato ai nordafricani.

Procedendo con ordine, "Il matrimonio di piacere" è un romanzo strano, che si presenta come una storia d'amore ma che in verità è la storia di una famiglia e di romantico ha ben poco. Una storia nella storia, peraltro, come un gioco di scatole cinesi, come una nuova "Mille e una notte". Infatti l'autore presenta un narratore, uno di quegli uomini raminghi che, senza radici, viaggiano da un villaggio e da una città all'altra per tutto il Marocco (e forse non solo, forse esplorando tutto il Maghreb o addirittura spingendosi fino all'Africa subsahariana) con la sola occupazione di narrare storie, appunto. Una figura fantastica, letteraria ormai, che in Europa non esiste più da secoli ma che forse è sopravvissuta in alcune zone dell'Africa, dove le tradizioni si sono conservate nonostante la colonizzazione. Questo misterioso narratore si accinge quindi a raccontare una storia, la storia di Amir e Nabou, del loro amore e delle conseguenze drammatiche che ne seguirono.

Non è una storia allegra, quella di Amir e Nabou. Amir è bianco, marocchino, figlio di una famiglia stimata e benestante dedita al commercio, sposato giovanissimo come si conviene tramite un matrimonio combinato e padre di tre figli. Nabou è senegalese, una giovane donna indipendente, sensuale e bellissima, animista, che non ha paura del sesso e soprattutto è nera. Tuttavia Amir e Nabou si conoscono in occasione di un viaggio di lavoro di Amir, durante il quale egli decide di contrarre un matrimonio di piacere, come è previsto dalla legge islamica.
Io non ero a conoscenza di questa pratica e mi ha molto sorpreso. Pare che, se un uomo si trova a stare lontano da casa per un lungo periodo di tempo (qualche mese, ad esempio), per evitare che egli pecchi andando con le prostitute è possibile sposarsi a scadenza, a patto di pagare una generosa dote alla moglie di piacere. Insomma, un'amante autorizzata e legalmente riconosciuta, concessa però solo finché l'uomo non torni dalla propria famiglia. Un interessante, per quanto tristemente maschilista, metodo per evitare il sesso casuale.
Amir sceglie di sposare Nabou per diversi anni di seguito, poiché rimane ammaliato dalla passione e dalla forza della donna, dalla sua mancanza di inibizioni, dalla sua capacità di dare e provare piacere. Nabou non è una sciocca, è una donna intelligente e un poco istruita, quindi sa anche capire e consigliare Amir e intrattenerlo con le storie della propria tradizione. Amir non può che perdere la testa per Nabou, soprattutto quando per moglie si ritrova invece una donna fredda e distante, che gestisce la casa in modo impeccabile ma che non è mai riuscita a dargli vere emozioni. Non che Amir se lo aspetti: in Marocco è quasi visto con contrarietà un amore passionale, quasi fosse licenzioso persino tra marito e moglie.

La svolta drammatica si ha quando Amir, dopo l'ennesimo periodo di relazione con Nabou, si rende conto di amare teneramente la donna e di non volersene più separare. Decide quindi di portarla con sé in Marocco e di sposarla a tutti gli effetti, prendendola come seconda moglie. La scelta di Amir è folle dal punto di vista razionale: sa che la prima moglie non accetterà mai Nabou, perché si vedrebbe soppiantata nel proprio ruolo di padrona di casa, e soprattutto sa che la popolazione locale, i marocchini, non vedranno mai la bella Nabou come una donna libera e degna di rispetto, ma solo come una schiava nera, buona per fare i lavori di casa ed essere all'occasione sfruttata come sfogo sessuale. Ciononostante Amir non è il tipo di uomo da farsi molte domande e scrupoli e la coppia si trasferisce a Fès.
Non ero a conoscenza di questo viscerale odio da parte della popolazione nordafricana nei confronti di chi è originario delle regioni a sud del Sahara. Non posso dare per certa la veridicità della situazione descritta dall'autore, ma credo che volesse portare alla luce una problematica molto forte del proprio Paese d'origine. Immagino che anche lui senta l'assurdità di questo atteggiamento, avendo provato lo stesso trattamento in Francia, dove vive da quando aveva trent'anni. Dalle pagine della storia pare che in gran parte il disgusto per la popolazione di pelle nera sia dovuto alla loro sorte durante il periodo schiavista, come se la colpa di essere stati imprigionati, violati e venduti fosse delle popolazioni stesse che l'hanno subito, della loro debolezza. Non a caso uno dei termini dispregiativi rivolti ai neri in Marocco è abid, il corrispettivo di schiavo.

Da lì in poi la storia prende una piega più cupa, a tratti drammatica, mentre la storia della famiglia di Amir si dipana, tra figli, nipoti e un Marocco che, dagli anni '40 in cui la storia ha inizio, cambia velocemente, in preda ai tanti sovvertimenti di potere, fino ad arrivare ai giorni nostri. Amir e Nabou perdono importanza, escono di scena, e l'occhio di bue si accende sui loro discendenti fino a Salim, ragazzo giovane e istruito che si ritrova, a causa del colore della propria pelle, a rifare il percorso seguito dalla nonna tanti anni prima, ma al contrario: tornerà in Senegal, riscoprirà cultura, tradizioni e lingua di un popolo che non aveva mai incontrato e riabbraccerà le proprie origini, diventando davvero africano.
Mentre la prima parte della storia è molto dettagliata e lenta, la storia dei loro discendenti è affrettata, spezzettata, come un susseguirsi di flash sempre più veloci. Rallenta un po' su Salim ma poi riprende a correre, arrivando all'epilogo con un senso di vuoto improvviso. Ebbene, viene da dire, finisce così? E Nabou, la bella Nabou, la lasciamo così, senza una parola di più?

La scrittura di Tahar Ben Jelloun è fluida, chiara e leggera, come bere acqua fresca in una giornata calda. Il libro è di 231 pagine ma si può leggere in una giornata. Non è un romanzo che vien voglia di lasciar giù e fare altro, il che è un gran successo per l'autore. Sottolineo questo perché ho trovato peculiare quanto la narrazione mi prendesse nonostante la trama in sé fosse, a mio parere, piuttosto scialba e deludente. Sì, molti spunti sono interessanti, soprattutto quest'immersione in una cultura completamente altra eppure così simile per certi aspetti (uno su tutti, ad esempio, l'odio per gli immigrati, che rubano il posto ai mendicanti locali...); tuttavia mi aspettavo emozioni che non ho provato, svolte narrative che non sono mai avvenute, conclusioni più pregnanti, più forti. Sarà che mi aspettavo davvero una storia totalmente costruita attorno alla relazione tra Amir e Nabou e l'inserimento da un certo punto in poi di tutti questi altri personaggi mi ha un po' spiazzato...
La storia è anche ricca di deviazioni, poiché i protagonisti incappano in continuazione in altre storie, in avventure che qualcun altro ha vissuto, a volte reali e a volte favolesche: non importa, l'autore ce le racconta tutte. Ci sono persino un sacco di dettagli inutili, specificazioni che poi non portano da nessuna parte, come cul de sac narrative che forse, nell'economia del romanzo, avrebbero potuto essere eliminate.

Vorrei anche sottolineare la scelta dello scrittore di inserire tra i personaggi principali un uomo affetto da sindrome di Down. Si tratta di Karim, uno dei figli di Amir avuti con la prima moglie, ed è descritto come un giovane meraviglioso, un'anima luminosa al limite della santità. Per quanto non sia stata conquistata da una raffigurazione così spiccatamente positiva da cadere nello stereotipo, mi ha colpito il fatto che l'autore abbia pensato di includere un disabile all'interno di una società in cui, di disabilità, noi europei non sentiamo mai parlare.

Che dire alla fine di questo libro? Mi ha tenuto compagnia in modo egregio e mi ha permesso di sguazzare per qualche ora in un Paese africano di cui non sapevo (e non so tuttora, nonostante questa lettura) praticamente nulla. Consiglierei l'autore come uno scrittore davvero dotato e il romanzo in questione se si cerca un storia facile, quasi da ombrellone. Non consiglierei invece il romanzo se si ha intenzione di leggere di una storia d'amore più che di una dinastia.

P.S.: questo libro ha riportato alla ribalta in me una delle domande che mi sono tanto posta: uno scrittore nato e cresciuto in Marocco ma che vive da quasi 40 anni in Francia può davvero essere considerato uno dei massimi esponenti della narrativa marocchina? Non è ormai da considerarsi francese, soprattutto visto che scrive in francese? O si dovrà piuttosto tener conto delle ambientazioni e delle tematiche che tratta, in questo caso quasi sempre legate al Paese d'origine?
Un dubbio che non riuscirò mai a chiarire davvero, temo!



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